Morto Claudio Mancini, il produttore ex pugile che lavorò con Sergio Leone e sparò a Mario Brega

morto claudio mancini, il produttore ex pugile che lavorò con sergio leone e sparò a mario brega

Claudio Mancini_c'era una volta

Tavolo di un ufficio di produzione. Da un lato è seduto Claudio Mancini, produttore. Dall’altro Mario Brega, attore. Entrambi romani. Entrambi ex pugili. Entrambi straordinari personaggi. Brega sta trattando per un ruolo nel prossimo film di Leone, quasi sicuramente C’era una volta il West (aveva appena fatto una parte importante in Il buono il brutto il cattivo). Pretende una paga più alta. Forse troppo alta. A un certo punto, da sotto il tavolo, Mancini gli spara. Un colpo di pistola fra i piedi. Brega non si scompone. Guarda Mancini e gli fa: “A Cla’, ma che fai, me spari?”. E Mancini: “E te sparo sì, hai rotto er c**** a chiede tutti ‘sti sordi”.

Claudio Mancini è morto ieri a Roma all’età di 96 anni. Era nato a Roma nel 1928. Quando lo intervistammo, anni fa, viveva a Casal Palocco, in una bella villa. Dopo l’intervista ci portò a visitare la cantinetta. Nella cantinetta altri hanno la taverna, il bar, il camino, la tavolata per le cene con gli amici. Lui aveva tutta l’attrezzatura per la boxe: guantoni, il sacco, il punching ball. Aveva già ottant’anni o giù di lì e si teneva in forma così. Era un uomo straordinario, un artigiano del cinema senza eguali, una miniera di aneddoti che forse erano veri, forse no.

Questo è un pezzo basato sulla storia orale del cinema italiano, e per questo i virgolettati sono in romanesco, perché Mancini parlava solo in romanesco. Molte cose potrebbero non essere vere. Anche la sparatoria con Brega (che per la cronaca, in C’era una volta il West, non c’è, chissà come mai?...). Ma come dice John Ford in L’uomo che uccise Liberty Valance, quando la leggenda diventa realtà, stampate la leggenda.

Mancini viveva nel centro storico di Roma quando ancora non esistevano né pizze al taglio né sushi-bar. Viveva per strada, come tutti i bambini degli anni 30 e dell’immediato dopoguerra. “Il mio gioco preferito era la sassaiola. Me piaceva tanto tira’ i serci agli altri regazzini. L’altro gioco meraviglioso era il cinema, dove mamma ci parcheggiava per interi pomeriggi, era il nostro asilo nido. Il cinema mi faceva sentire grande. E poi vedevo le sassaiole pure lì, quanto mi piacque I ragazzi della via Paal”. Cominciò nel cinema come aiuto elettricista, poi fece di tutto: comparsa, organizzatore, ispettore e segretario di produzione, qualche volta direttore della fotografia, produttore in proprio. Gli è mancato solo di fare il regista.

Sergio Leone era il suo amico, il suo punto di riferimento, il suo dio: “Avevo un rapporto di odio/amore con lui. Quanto me faceva incazza’! Dieci, venti, cento ciak! Ma per la ricerca della perfezione. C’era una volta in America nasce da una sequenza che lui raccontava sempre, e che poi non ha girato. Sergio non sapeva scrivere ma raccontava i film come nessuno. La scena era così: dettaglio degli occhi di un uomo, primissimo piano. La macchina si allontana, vediamo che quest’uomo è sulle spalle di altri due uomini che lo sostengono. La macchina scende e vediamo che l’uomo ha i piedi incastrati in un blocco di cemento. Sempre senza stacchi, vediamo che i due tizi portano l’uomo vicino alla riva di un fiume e lo buttano in acqua. La macchina lo segue, scende sott’acqua e vediamo tanti altri blocchi di cemento dai quali spuntano degli scheletri. Era troppo difficile da realizzare. Oggi col digitale sarebbe un giochetto”.

Mancini aveva lavorato con tutti. Fece molte produzioni di Ponti e De Laurentiis che lo appiccicavano alle costole dei registi perché li aiutasse e li controllasse. Andò in Jugoslavia con David Lean per i sopralluoghi del Dottor Zivago (poi lo fecero in Spagna). Andò in America in tante occasioni. Un racconto di Giuliano Montaldo: “Mancini e Leone stavano producendo Un genio, due compari, un pollo, un western comico diretto da Damiano Damiani. Le riprese si svolgevano in Arizona. Damiani sforò i tempi, la produzione rischiava di saltare e Mancini chiamò Sergio: venite, questo s’è incartato, serve il vostro aiuto. Sergio mi portò con sé per girare scene da seconda unità, azione, sparatorie, cavalcate, mentre Damiani lavorava con gli attori. Finimmo nella Monument Valley, con Sergio che mi diceva tutto eccitato: ‘A Giulia’, ma ‘o senti, ‘o senti?’. E io: a Se’, ma che devo sentì? Lui: ‘John Ford, non lo senti il fantasma di John Ford?’. Io sentivo solo un gran caldo. Giriamo nel deserto e Mancini ha organizzato un catering pazzesco, cibi e bevande per tutta la troupe. Mentre tutti stanno mangiando arriva un pick-up, un furgone, scende un Navajo – eravamo nella loro riserva – e chiede dell’acqua da bere. Lo cacciano in malo modo. Il Navajo non fa una piega: va verso il furgone, apre lo sportello, prende dal parabrezza un Winchester, torna verso la troupe e spara sul catering. Tutti sotto il tavolo, tutti dietro le rocce: tranne Mancini. Claudio va verso l’indiano, gli strappa il Winchester e in puro romanesco gli dice: ‘Ma che te sei impazzito, me stai a sbragà tutto er catering, ma va a morì ammazzato’. L’indiano, sempre imperturbabile, se ne va”.

Come produttore fece Nell’anno del Signore di Gigi Magni: “Magni era quasi un esordiente, ma se la cavava molto bene. Inizialmente dovevamo ingaggiare solo attori sconosciuti. Poi, per il ruolo di Pasquino, entra nel film Nino Manfredi. Al che, io e Gigi se guardamo: ahò, visto che c’è Nino, piamoli tutti! E quindi prendiamo Sordi, Tognazzi, Hossein, la Cardinale. E Magni li gestiva come un domatore. Il film era complicato, dovevamo girare nel centro di Roma coprendo l’asfalto con la polvere, nascondendo i segnali stradali. Grande esperienza”.

Mancini era la storia orale del cinema italiano fatta persona. Si poteva stare ore ad ascoltarlo. Sempre per la serie “stampate la leggenda”, sosteneva di aver inventato il soprannome “Monnezza” perché quando andò a trovare Tomas Milian per la prima volta “quello m’aprì la porta tutto zozzo, coperto de panni sporchi, come un fruttarolo vicino casa mia che chiamavamo ‘er monnezza’”. Chissà se è vero. Cercate le sue interviste su Youtube, ce ne sono diverse, vi si aprirà un mondo. Tra i suoi ultimi impegni c’era stato anche il lavoro su Montalbano e la conferma della sua scomparsa ci è arrivata proprio da Francesco Bruni e da Carlo Degli Esposti. Condoglianze alla famiglia, ai numerosi figli che lavorano tutti nel cinema.

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