Ex Ilva, ecco i tre nuovi commissari estranei alle «mangiatoie»
La mangiatoia, per una volta, è rimasta vuota e disadorna.
I tre commissari di Acciaierie d’Italia si chiamano Giancarlo Quaranta, dirigente siderurgico di lungo corso, Davide Tabarelli, uno dei maggiori esperti italiani di energia al servizio dell’industria, e Giovanni Fiori, commercialista.
Primo elemento: i tre commissari di Acciaierie d’Italia in amministrazione straordinaria non appartengono alla pletora di professionisti italiani che si accalcano intorno ai ministeri e ai tribunali per disputarsi, grazie a regole assurde, posizioni di gestione dei cadaveri industriali che permettono loro di incassare parcelle milionarie staccate dallo Stato.
Secondo elemento: i tre commissari di Acciaierie d’Italia sono uomini di mondo che hanno le loro esperienze e i loro legami, ma non appartengono alla genia italica di avvocati, commercialisti, dirigenti di azienda, ragionieri del lavoro, specialisti della finanza che devono il loro benessere personale alla contorta e opaca geografia sociale ed economica dei rapporti fra politica, burocrazia, lobbying che a Roma ha il suo apice ma che osserva le stesse regole, con intensità maggiori o minori rispetto alla capitale, in ogni parte dell’Italia.
Quaranta è un dirigente di fabbrica. Il suo nome ha raccolto unanimi favori, al limite dell’applauso, da parte del mondo delle imprese e da parte dei sindacati.
Tabarelli nasce nella Bologna crocevia della cultura e della politica, degli affari e delle imprese. Lavora a Nomisma. Appartiene al mondo prodiano che, per sua stessa natura, ha la trasversalità garantita dall’alfabetizzazione minima della decenza e della razionalità, della competenza tecnica preventiva e dell’applicazione concreta alla risoluzione dei problemi. Di Tabarelli si conoscono le posizioni pragmatiche e disilluse sulla transizione verde nell’industria e sull’idrogeno nella siderurgia.
Di Fiori si conoscono soltanto il curriculum accademico e lavorativo e gli echi di una attività non spericolata, riservata e ritenuta lontana dai big deal neri e ambigui delle professioni italiane, che hanno appunto l’unicum di riuscire a guadagnare centinaia di migliaia di euro tenendo aperti cimiteri occupazionali, pilotando crac finanziari e curando bare fiscali.
Tutto questo, naturalmente, non basterà per salvare l’ex Ilva. Per salvare l’ex Ilva serve un miliardo di euro pubblico per rimettere in moto la macchina tecnoindustriale che è finita spiaggiata. Oltre ai 320 milioni di euro che già ci sono, il Mef deve trovare nelle pieghe del bilancio statale altri 700 milioni. Per salvare l’Ilva serve una operazione verità. E l’operazione verità sui numeri avrà risvolti giudiziari, che riguarderanno le responsabilità civili e penali di chi ha portato la vicenda fino al punto di non ritorno, e avrà risvolti pubblici: risvolti pubblici perché, a fronte di quello che troveranno i tre commissari, i sindacati dovranno decidere se scegliere una linea di operatività alla tedesca per ridurre drasticamente un numero di addetti che è fuori dal tempo o se invece adottare una linea sudamericana, populista e movimentista per cui nulla si può toccare, tanto c’è la panacea della Cig di massa e perenne.
Per salvare l’Ilva serve, dopo avere riportato in bonis la identità morale e la fisiologia economica dell’impresa commissariata, un investitore privato che condivida con il pubblico potere e responsabilità e che, anche con la sua presenza, renda “bancabile” una società che oggi, dalle banche, non può ricevere un euro di nuovo credito. Nessuno ha detto che sarà facile. Ma il governo Meloni – non proprio composto da conoscitori delle dinamiche industriali, dei meccanismi dei mercati globali e della delicata interazione fra società, politica ed economica – ha iniziato bene, lasciando appunto per una volta vuota e disadorna la mangiatoia.
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