Il numero era atteso e ieri il ministero dell’Economia lo ha ufficializzato: il tasso di rivalutazione provvisorio delle pensioni per il prossimo anno è stato fissato al 5,4 per cento. Gli aumenti scatteranno da gennaio con la stessa modalità del 2023: dunque incrementi con questa percentuale per gli assegni che non superano i 2.271,76 euro lordi mensili, (quattro volte il minimo Inps, ovvero poco meno di 1.800 euro netti). Per i trattamenti superiori l’indicizzazione sarà parziale, con percentuali decrescenti: 4,59% per quelli fino a cinque volte il minimo, 2,862% tra cinque e sei volte, 2,538 tra sei e otto volte, 1,998% tra otto e dieci volte, 1,188% oltre le dieci volte. In quest’ultimo caso la percentuale è stata ulteriormente abbassata con la legge di Bilancio: se per lo scorso anno veniva riconosciuto il 32 per cento della rivalutazione, ora si scende al 22. Una modifica che ha effetto sulle pensioni più alte, al di sopra dei 5.679,40 euro lordi mensili (circa 3.800 netti).
Pensioni, aumento da gennaio 2024 fino a 130 euro con adeguamento all’inflazione: +5,4%. Simulazione e tabelle
La stima della rivalutazione
Il 5,4 per cento comunicato dal Mef corrisponde ad una stima non definitiva dell’inflazione media di quest’anno; che a consuntivo (includendo anche i dati di novembre e dicembre) risulterà probabilmente un po’ più alta, anche se non di molto. Va ricordato che gli incrementi per il prossimo anno partiranno da importi su cui risulterà già applicato (con la rata di dicembre) il conguaglio della rivalutazione 2023, a sua volta corrispondente all’inflazione dell’anno precedente. Il tasso definitivo pari all’8,1 per cento ha portato l’importo del trattamento minimo Inps a 567,94 euro mensili.
Le simulazioni
Quali saranno gli effetti concreti sui trattamenti di circa 16 milioni di pensionati? Gli incrementi lordi in generale non corrispondono a quelli netti, perché naturalmente c’è da mettere nel conto il prelievo fiscale; quest’anno però l’impatto dell’Irpef risulterà un po’ attenuato dall’entrata in vigore del primo modulo di riforma, che riduce il prelievo fino a un massimo di 20 euro mensili. Così una pensione da 1.000 euro al mese (sempre lordi, quindi circa 900 netti) avrà una maggiorazione di 54 euro mensili su 13 mensilità, che si riducono a 38 dopo l’Irpef. L’aumento lordo cresce via via fino a sfiorare i 123 euro (96 netti) per l’assegno pari a 4 volte il minimo, poi si riduce perché la percentuale di adeguamento scende dal 100 all’85, quindi cresce ancora toccando i 130 euro lordi per una pensione di 2.839,70 mensili (cinque volte il minimo, poco più di 2.100 netti). Una volta applicata l’Irpef però il beneficio si assottiglia a 100 euro circa. Al crescere della somma mensile, come abbiamo visto, il tasso di indicizzazione cala e l’intensità dell’aumento ne risente. Per una pensione di 6 mila euro mensili lordi (poco meno di 4 mila netti, superiore alle dieci volte il minimo) c’è solo un incremento dell’1,188 per cento: 71 euro lordi che ne valgono 60 netti.
Il meccanismo
Dal 2025, sulla base dell’inflazione che sarà registrata il prossimo anno (prevedibilmente molto più contenuta), la rivalutazione dovrebbe essere applicata con un meccanismo diverso e più vantaggioso per i pensionati: i tagli saranno molto più limitati e calcolati non sull’intero importo dell’assegno ma per scaglioni. A meno che il governo, pressato dalle esigenze di finanza pubblica, ci ripensi prolungando lo schema che ha debuttato con la legge di Bilancio per il 2023.
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