La mia, di rivelazione, si è disvelata quasi vent’anni fa, cioè il giorno in cui Mirko Caretta, che aveva appena aperto birefud – un posto che i romani birrafondai ricordano bene, e sempre con un pizzico di nostalgia – mi ha portato a Via Cipro. Là, nell’angolo opposto a La Tradizione, la cacioteca forse meglio fornita di Roma, aveva aperto da qualche tempo Pizzarium, il sancta sanctorum di Gabriele Bonci: quando ho addentato la pizza LSD (cioè liquirizia, salsiccia e datteri) l’esperienza è stata, nomen omen, lisergica. Per me è stata una rivelazione, dicevo, perché venivo da un posto – ok, decisamente di provincia, ma che vuol dire – in cui la migliore pizzeria del quartiere, da secoli, proponeva tre tipi di pizza: margherita, marinara, con le patate.
Bonci, già da qualche tempo, uno dei primi a farlo, aveva dimostrato che osare, sperimentare, farcire la pizza creando qualcosa che col tempo avremmo imparato a chiamare, orridamente, gourmet, si poteva fare. C’è stato un prima e un dopo, con Bonci. E per me, da quell’assaggio.
pizza
Sono piuttosto convinto che nella top ten degli elementi più divisivi della cultura italiana, dopo il calcio e la politica, ci sia il cibo; e sono altrettanto sicuro che il capopopolo della divisività culinaria, ecco, sia la pizza. Declinabile in venti miliardi di maniere diverse perché, appunto, prodotto ad alta complessità, dalla scelta delle farine all’acqua ai lieviti a – ultimo, ma non proprio ultimo – cosa metterci sopra. Oltre al tempo, casomai l’ingrediente più prezioso. Il tempo che ci vuole per lievitare, ma anche per meditare, studiare, sperimentare. Nonostante la ratio tra pizzaioli che definirò consapevoli (impegnati, cioè, nella ricerca e nella sperimentazione) e pizzaioli naif sia ancora decisamente sbilanciata a favore di quest’ultimi, dal mio morso alla LSD ad oggi c’è stata una presa di coscienza decisa: eppure, come ci ha insegnato Eduardo Galeano, non basta sognare di essere bravi calciatori per poi, ecco, svegliarsi crack.
Il machecevoismo si declina in molte maniere diverse, non sempre – e non solo – incoscienti: nel piccolo posto della mia quotidianità, ma sono convinto sia stato lo stesso per voi che leggete, nei piccoli o grandi posti della vostra quotidianità – pizzaioli che ci hanno provato, con maggiore o minore cognizione, ne abbiamo visti una caterva. L’asticella credo si sia alzata inesorabile, e meno male, quando abbiamo iniziato a confondere gourmet con glam, la sensibilità con la sensazionalità. I divertissement di mettere sulla pizza l’ananas, come sdoganato da Sorbillo, o il coccodrillo, come fa il calabrese Davanzo, o lo champagne a sostituire l’acqua nell’impasto, come Serafina a New York, funzionano come le stand-up comedies: il pubblico si diverte se è predisposto a divertirsi, ma soprattutto se lo stand-up comedian è bravo. E se nelle sue battute parla di quello che conosce meglio.
Nella crew-collettivo militante di Periferia Iodata, di realtà pizzaiole, ce ne sono due: il team della famiglia Di Lelio di Sancho, e poi Luca Pezzetta di Pizzeria Clementina. Parlare di Periferia Iodata è parlare, in prima battuta, di Fiumicino, un posto che è l’adamantina dimostrazione di come le occasioni vadano prese al volo, in cui è riuscita a decollare un’idea di proposta gastronomica combinata, coerente, solida – giuro che la finisco qua con le battute aeroportuali. Negli ultimi anni Fiumicino è diventata un po’ la nuova Senigallia (e prima o poi si dovrebbe approfondire il discorso di come certi posti finiscano nelle mappe gastronomiche grazie all’azione combinata degli attori di quel posto): due stellati come Gianfranco Pascucci e Lele Usai, e poi i talenti di Benny Gili de La Baia di Fregene, o Marco Claroni dell’Osteria dell’Orologio, solo per citarne due che mi hanno regalato quel tipo di esperienza che vent’anni fa mi ha suscitato il morso all’LSD (non quel LSD).
Periferia Iodata è l’associazione – e ancor prima di essere associazione, il concetto – che riunisce ristoratori e li mette in connessione coi produttori di un territorio, come quello del litorale a nord di Roma racchiuso tra Fiumicino, Maccarese e Fregene, ancora forse troppo schiavo, appunto, delle metafore aeroportuali. Si propongono di essere «custodi non gelosi di una bellezza che trovi la sua strada ovunque nel mondo», promuovendo eccellenze, prodotti, ricette.
L’orgoglio, e l’identità, declinate in maniera personalistica ovviamente ma sempre con il pensiero a quel profumo di iodio che ti fa spalancare i polmoni, e il cervello, e a quel revanscismo da periferia che costituisce una motivazione in più, che ti fa venire voglia, nerudianamente, di mangiarti tutta la terra e berti tutto il mare.
La pizza di Pezzetta – che prima di Clementina a Fiumicino sfornava all’Osteria di Birra del Borgo in una traversa di Via Cola de’ Rienzo – sono le pizze di Pezzetta: dallo spicchio cotto al padellino al quadruccio di teglia romana, fino alla tradizionale pizza romana – quella fina fina, scrocchierella – nelle quali confluisce tutta la consapevolezza di Pezzetta: quattro impasti diversi che sono la sua eredità e al contempo la sua legacy, e per ogni impasto un ceppo di lievito diverso.
E poi: quello che ci va a finire sopra, o dentro. Cioè, spesso, il mare di Fiumicino: dalla mazzancolla porchettata allo spiedo di polpo alla cacciatora allo shnitzel di alici locali, che finiscono dentro la pizza al padellino (una – come la definisce Pezzetta – antifocaccia a lievitazione naturale, realizzata con una miscela di farine macinate a pietra in doppia cottura, prima al vapore in padellino, appunto, e poi in forno statico). Passando poi per il tonno (o la ricciola, o lo spada) che finiscono nella Capricciosa di Mare, forse il suo signature-dish, la pizza in cui la località proffonde in tutta la sua clamorosità identitaria. Forse, in quanto a rapporto con la pizza, siamo diventati meno propensi alla fulminazione sulla via di Damasco: ne abbiam viste troppe per entusiasmarci. Ma che serendipità è, invece, scoprire che a farci venire fiducia, a strapparci un sorriso, in fin dei conti certe volte non basta che un semplicissimo filetto di alice locale in una marinara?
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