Albanese va dai truffati delle banche: «Ero un operaio, vi dedico il mio film»

Ne lavorò mille di domeniche, per dare ai figli una vita decente, il manovale Umberto Albanese, immigrato sul Lago di Como da Petralia Soprana, sulle Madonie, a metà degli anni Cinquanta: «Ricordo che la mattina di un giorno di Natale, sarà stato il 1978, si presentò uno a chiedergli di andare da lui a fare non so cosa di urgente. Fu una delle rare volte che vidi mia mamma Maria innervosirsi: “No, Umberto, no, ti prego, a Natale no!» E adesso che lui, Antonio, entra con un groppo in gola sotto un diluvio di applausi nella sala del cinema diocesano Leone XIII , dov’è appena finita la proiezione dedicato a tutti gli italiani rovinati pochi anni fa dal crac della «Popolare di Vicenza» e altre banche senza scrupoli, ha il magone. Ma certo che anche l’Umberto si sarebbe fatto bidonare. Lui stesso ci sarebbe cascato, nella trappola degli untuosi funzionari che suggerivano ai clienti di lasciar i loro soldi lì, a crescere nelle casse dell’istituto, e farsi fare piuttosto un prestito da pagar comodamente con gli interessi dei soldi depositati: «È stato un gioco criminale. Tradire la fiducia delle persone è un atto criminale».

Spiega che no, anche se la sala è piena zeppa di persone scottate dalla truffa e ospitate dal vescovo Giuliano Brugnotto con il sindaco vicentino Giacomo Possamai e il presidente del consiglio regionale Roberto Ciambetti e i principali animatori della rivolta dei risparmiatori Luigi Ugone e Renato Bertelle per vedere quel film drammatico che parla di loro, lui non ce l’ha con Gianni Zonin, il patron della «Popolare» che era il Re Sole della città e ora se ne sta chiuso nel suo maniero senza aver fatto un solo giorno di carcere: «Ce l’ho con un sistema dove nessuno ha mai pagato davvero per la rovina di centinaia di migliaia di persone perbene. Non entro nel merito dell’inchiesta. Ma non è giusto. Hanno devastato la fiducia di intere comunità. È imperdonabile».

Comunità come quella nella quale è nato, a Olginate, sul ramo lecchese del Lario, dove ancora vive la madre e dove è tornato per girare il film che «tiene insieme tante storie di tanti paesi e città italiani». Lì fece le elementari e le medie, lì si innamorò dei boschi, dei funghi e della pesca con l’amo del Temolo, da lì tornò per anni tutte le estati col padre, la madre e i fratelli maggiori Anna e Ignazio sulle Madonie: «Erano viaggi in treno che duravano venticinque ore. Ricordo gli assalti ai vagoni sul binario, la calca, i fagotti, le soste nelle stazioni coi venditori di gelati che allungavano gli stecchi ai finestrini, gli odori, le chiacchere interminabili e poi, bellissima, la Sicilia…» Due settimane e poi il ritorno nella piccola patria lacustre. Dove cominciò lavorare a 15 anni nella fabbrica metalmeccanica Tecno Impianti di Angelo Gnecchi: «Era normale, in famiglie come la mia, andare a lavorare dopo le medie. Anche negli anni Settanta. Scarpe rinforzate da lavoro (se ti cadeva un pezzo sul piede erano dolori), braghe e giacca operaia blu dalle tasche grandi. Il primo giorno mi affidarono al capo officina che doveva capire a cosa ero adatto. Ero un ometto. Indipendente. Fiero di esserlo. Di guadagnarmi il pane fino a comprarmi un’Audi 80 di ventiduesima mano, ma mia. Dalle otto a mezzogiorno, pausa pranzo e ritorno al bancone. Facevo il tornitore. Un mestiere di fino. Dove badi al decimo di millimetro… Guai a distrarsi».

Tira su la manica e mostra il polso: «Questa cicatrice me la lasciò un ricciolo d’acciaio incandescente. Sul bancone dove restai a lavorare per sette anni. Facendo le scuole serali da perito meccanico perché a un certo punto mi ero reso conto di quanto contasse leggere e studiare. Determinante, per me, prima di buttarmi in questa avventura grazie a un’amica che mi trascinò a un corso serale di teatro, fu quella realtà in fabbrica. Adoro Ken Loach, un regista straordinario che ha saputo raccontare come nessuno il mondo operaio. In fabbrica, però, neanche lui non ha mai lavorato. Io sì. Anzi, forse sono l’unico regista al mondo che è tornato a girare un film allo stesso tornio su cui aveva lavorato davvero».

Proprio lo stesso? «Lo stesso. Se volevo essere credibile raccontando questa tragedia dei truffati dalle banche dovevo partire dalla realtà che ho conosciuto meglio. Il mio paese. I compaesani. I condomini sul lago. Dove mio padre, vincendo tutti i pregiudizi, si era guadagnato la stima e l’amicizia anche dei più diffidenti. Un giorno uno mi fa: “Se i sicilian ieren tot cume el to pa’, la Sicilia l’era el Giapùn”. Se tutti siciliani fossero come tuo papà, la Sicilia sarebbe il Giappone. La classe operaia, allora, era un’altra cosa. C’era rispetto. I rappresentanti dei partiti venivano in fabbrica. Parlavano con le persone. Di cose concrete. Problemi veri». Vuol dire senza la consulenza di armocromiste? Ride: «Lasciamo perdere. Non voglio entrarci, in queste polemiche. Dico solo che gli operai hanno fatto grande questo Paese. Anche in Parlamento. Ma adesso?»

Per due anni, racconta, ha lavorato a : «Ho letto, studiato, sentito un mucchio di testimonianze, parlato a lungo con Emilia Laugelli, una psicologa che qui a Vicenza aveva seguito persone stremate perché tradite dalle banche. Gente che non chiudeva occhio per notti e notti e notti consecutive. Anche Antonio Riva, l’operaio del mio film, non dorme di notte. Vengono pensieri brutti, se non dormi. Fu ascoltando quelle storie che mi decisi: il film andava fatto. Ho cinquantanove anni e quarantaquattro di contributi: tra quelli che hanno perso i risparmi di una vita avrei potuto esserci anch’io. Carlo Degli Esposti ha capito, ci ha creduto, siamo partiti. L’accoglienza di questi giorni in tante sale italiane conferma che sì, andava proprio fatto».

C’è chi ha ricordato Quel pomeriggio di un giorno da cani di Sydney Lumet… «Ho letto, ma lì Al Pacino voleva i soldi della banca come una sorta di risarcimento per la guerra in Vietnam. Qui no, qui il nostro Antonio Riva ripete: voglio solo i soldi miei, solo i miei, quelli che mi avete truffato… È tutta un’altra storia… Quello che più mi ha colpito e mi ha mosso è il senso di colpa provato dai truffati. Un dolore lancinante. Povera gente. Come se fosse colpa loro…»

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