La “vendetta” di Salvini contro Draghi
Non si sono mai presi. Ma ora Matteo Salvini si toglie qualche sassolino e nel nuovo libro, Controvento, in uscita a fine mese per Piemme, tratteggia un Draghi stretto fra altezzosità e ambiguità. Per nulla disposto ad ascoltare la voce dei partiti e invece intento dietro le quinte a costruire la propria ascesa al Colle. Un Draghi che tratta Salvini come un cameriere, dandogli 10 minuti di tempo per valutare i ministri già scelti da portare al Quirinale. Un Draghi che alla domanda di Salvini sul suo eventuale successore a Palazzo Chigi, replica come un maestro della nouvelle vague: «Ne parleremo dopo». Tutto questo mentre l’ex premier entra nel totonomi per i prossimi vertici della Ue: Consiglio o Commissione.
L’ex governatore della Banca centrale europea si rivela però una delusione per l’allievo di Bossi che pure l’aveva accolto favorevolmente: «Un nome di prestigio internazionale. Nel centrodestra Draghi godeva di ottima considerazione».
Ma la dote si consuma rapidamente già nelle ore cruciali della formazione del nuovo esecutivo. «Anzi, più che ore, minuti». «Al di là della cortesia dei primi approcci, il premier Draghi scelse di non condividere con i segretari dei partiti nemmeno la scelta dei ministri».
Un atteggiamento distaccato, da tecnocrate puro, che sconcerta il capo della Lega e altri leader. «Ricordo che ero a casa quando squillò il telefono. Palazzo Chigi. Da lì a 10 minuti, i nomi degli aspiranti ministri sarebbero stati consegnati al Colle. Ripeto: dieci minuti».
Salvini resta basito. Ma questo è il diktat che riceve e non ci sono alternative. «Draghi mi comunicò di aver individuato in Giancarlo Giorgetti, Massimo Garavaglia e Erika Stefani i leghisti meritevoli di ottenere dei dicasteri. Nomi autorevoli, che godono della mia totale stima e fiducia ma il metodo era evidentemente sbagliato».
Tutti mugugnano, ma nessuno vuole rompere; d’altra parte il momento è drammatico e Draghi è il salvatore della patria.
Del resto, quel governo in cui pure entra la Lega, schiera altre figure che al segretario proprio non vanno giù: «La disastrosa Luciana Lamorgese confermata al Viminale, per non parlare di Roberto Speranza alla Salute, fino all’irriducibile Di Maio agli Esteri». Quelli sono i ministri e cambiamenti in corsa non sono ammessi.
Salvini non trova alcuna sintonia nemmeno quando spiega a Draghi, ormai premier, la necessità di un provvedimento fiscale che venga incontro ai cittadini in difficoltà: «Quel governo non fece assolutamente nulla in questa direzione».
Siamo all’inizio del 2022 e alla successione di Mattarella e ancora una volta Salvini si confronta con un personaggio sfuggente. «Nella conferenza stampa di fine anno – scrive Salvini – il presidente del Consiglio aveva fatto intendere di ritenere sostanzialmente conclusa la sua missione di governo. Un’uscita che in molti avevano letto come l’ammissione di voler puntare al Colle».
Cominciano le grandi manovre e come sempre alcuni nomi vengono bruciati per tenere coperta la carta pregiata. Draghi potrebbe essere un ottimo concorrente, ma è lui stesso, secondo Salvini, il primo nemico della propria candidatura.
«Ricordo un ultimo incontro con Draghi che sondava la disponibilitàdella Lega e del centrodestra in generale per una sua eventuale ascesa al Colle. Alla mia domanda diretta: In caso di sua elezione che ne saràdel governo?, la risposta non arrivò. O meglio, ci fu un Ne parleremo dopo».
Fin qui le anticipazioni. Il libro verrà presentato in una data speciale, il 25 aprile, a Milano in un dibattito moderato dal direttore di Radio Libertà, Giovanni Sallusti. Intanto, si viene a sapere che Matteo Renzi sta spingendo per issare Draghi alla presidenza della Commissione. E altri big lo incoronano, o almeno lo applaudono, prendendo spunto dalle linee guida del report sulla competitività in Europa – quasi un manifesto politico – che Draghi ha annunciato, indicando un cambiamento di rotta rispetto ai balbettii e alle divisioni di oggi. «Ben venga che anche Draghi chieda una svolta – afferma Giuseppe Conte -. I 5 Stelle sono stati i primi a farlo». Entusiasta il ministro Adolfo Urso: «Mi ritrovo nelle parole di Draghi, sono quelle di Meloni». Infine, il commissario Paolo Gentiloni: «Draghi ha ragione, serve un cambiamento radicale». Se non è un endorsement trasversale, poco ci manca.
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