Roma, 17 aprile 2024 – La candidatura di Mario Draghi non c’è, ma è come se ci fosse. O almeno, tutti la danno per scontata. Senza scoprirsi troppo né per spalancare né per chiudere le porte, perché parlare della candidatura alla presidenza della Commissione europea prima del voto è impossibile. Chi si espone è Emmanuel Macron, principale sponsor in Europa dell’ex premier: “È un amico formidabile, è stato un grande presidente del Consiglio, ma le nomine si fanno il giorno dopo le elezioni”.
Mario Draghi, 76 anni, è stato presidente della Banca centrale europea e presidente del Consiglio
Ancora più prudente Mateusz Morawiecki, leader del Pis polacco, asse portante con FdI dei conservatori europei: “Bisogna vedere se c’è abbastanza potere politico per presentarlo come candidato valido”. L’alleato di Giorgia (con la quale ieri a Bruxelles ha parlato anche di euro-scenari) indica quello che, per molti, è il vero punto debole di Draghi: l’assenza di un partito pronto a supportarlo. Silenti i socialisti; il più audace è Il commissario Paolo Gentiloni: “È necessario il cambiamento radicale chiesto da Draghi”.
Quando si tratta di incarichi europei, però, la partita è più complessa di quella che riguarda i singoli Paesi. Si incrociano la forza dei partiti e quella degli Stati. Macron, ad esempio, uscirà indebolito dalle urne, ma ha dalla sua il peso specifico della Francia, Paese guida dell’Unione con la Germania. È questo intreccio che rende fondamentale il ruolo del premier polacco Tusk. Tra gli sponsor di Draghi, può far pesare l’importanza della Polonia nell’Unione e nel Ppe.
I popolari saranno il primo partito anche nel prossimo Europarlamento, vantano 13 capi di governo: è naturale che la presidenza della Commissione resti a loro. Donald è la carta su cui puntano quanti a Bruxelles e Strasburgo fanno il tifo per l’ex premier: o lui sposta il Ppe o l’avventura di Draghi è già finita. Altrettanto importante è la posizione dell’Italia. Giorgia Meloni non si esporrà prima del 9 giugno, e comunque è difficile che abbandoni l’alleata Ursula von der Leyen finché la presidente uscente è ancora in corsa. Avverte il capo dei deputati di FdI, Tommaso Foti: “Se iniziamo una campagna tutta italiana per Draghi sbagliamo. Facciamo attenzione: chi entra Papa esce cardinale”.
Da Palazzo Chigi fanno capire che non si opporrebbero a una candidatura italiana così autorevole, pur non essendone entusiasti. Affermazioni diplomatiche: Draghi sarebbe più che inviso alla Lega, almeno fino a quando al timone ci sarà Matteo Salvini. La controprova? Il suo nuovo libro Controvento : esce il 30 aprile, ma il vicepremier ha, con straordinario tempismo, diffuso i brani in cui svela i retroscena del rapporto con SuperMario. Gli imputa “scivoloni” nella scelta di alcuni ministri del suo governo “sconcertanti” (“io non fui neanche consultato”); stigmatizza il “nulla di fatto” sulla pace fiscale. E non gli perdona che, quando Draghi lo sondò per una “sua eventuale ascesa al Colle”, non rispose alla domanda “che ne sarà del governo”. Ironizza l’europarlamentare renziano, Nicola Danti: “Salvini e Conte sanno che con Draghi in Europa ci sarebbero meno castronerie di Lega e M5s”.
In realtà, a parte una vittoria netta della destra che aprirebbe le porte a una maggioranza popolari-conservatori-liberali (poco probabile), una presidenza Draghi sarebbe per il governo italiano quasi un terno al lotto. Sempre che la posta in gioco sia la guida della Commissione. Nonostante la resistenza dei Paesi frugali, la missione di Draghi sarebbe più semplice se puntasse alla presidenza del Consiglio europeo. Strada che potrebbe essere preclusa solo dalla nomina di Antonio Tajani alla presidenza della Commissione, essendo impensabile assegnare entrambe le poltrone chiave dell’Unione all’Italia. Ipotesi considerata impraticabile dai più senza una maggioranza di centrodestra. “Il Pse non accetterebbe mai Tajani”. Ma in politica, si sa, mai dire mai.b
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