“Dialogo con Kiev”. La mossa dello Zar per tentare l’incasso (con due obiettivi)
«Siamo pronti al dialogo con l’Ucraina». La roccaforte ucraina di Avdiivka è caduta da sole 24 ore e l’esercito russo avanza su tutta la linea. Ma Vladimir Putin invece di cantar vittoria evoca un possibile negoziato aggiungendo che «se non fosse stato per l’Occidente, i combattimenti sarebbero cessati un anno e mezzo fa». A cosa allude? Per capirlo bisogna tornare al 31 marzo 2022 quando l’esercito russo si ritira dai territori intorno a Kiev. Per Mosca quella ritirata non è la conseguenza delle batoste del primo mese di guerra, ma il risultato dei negoziati condotti in Turchia con la controparte ucraina, pronta ad accettare la richiesta di «neutralità» avanzata da Mosca. Per quanto Kiev neghi di averla mai discussa – e tanto meno accettata – la neutralitàdi Kiev resta il principale obbiettivo politico di Putin. Un obbiettivo, sussurrano fonti russe, nel nome del quale potrebbe rinunciare ad alcuni dei territori conquistati e giàannessi alla Federazione Russa con i referendum, mai internazionalmente riconosciuti, del settembre 2022. Ma cosa significa «neutralità»? Nella visione del Cremlino è lo status mantenuto dalla Finlandia fino alla recente adesione alla Nato. Kiev per ottenere la pace dovrebbe rinunciare sia all’adesione all’Alleanza Atlantica – inserita come obbiettivo nella Costituzione fin dal febbraio 2019 – sia ad armi e aiuti occidentali.
Ma è realistico pensare a una capitolazione di Kiev e al suo addio a Usa e Ue? Oggi la risposta è no. Una vittoria di Donald Trump alle presidenziali di novembre potrebbe però ribaltare gli scenari. Il fallimento della controffensiva della scorsa estate, la sostituzione del popolarissimo capo di stato maggiore Valery Zaluzhny e la disfatta di Avdiivka stanno mettendo a dura prova la popolarità di Volodymyr Zelensky. Una sua capitolazione politica lascerebbe spazio ai tentativi del Cremlino di sostenere l’ascesa a Kiev di una dirigenza politica meno allineata con Washington e Londra.
Ma lo Zar è convinto che un negoziato possa regalargli la vittoria anche con Joe Biden alla Casa Bianca. Nella sua visione il vero asso nella manica è il logoramento dell’esercito di Kiev. Oggi molti ufficiali ucraini ammettono che i loro battaglioni, dopo due anni di guerra, combattono con 40 o 50 uomini a fronte di 200 iniziali. In questa situazione perdite e diserzioni vanificano gli aiuti militari dell’Occidente.
In una guerra di trincea combattuta su oltre mille chilometri di fronte la mancanza di uomini è più grave della mancanza di munizioni. Perché queste possono arrivare dall’estero, ma le reclute no. Per questo Putin è convinto che in caso di futuri negoziati né le armi americane né l’appoggio di Biden risparmieranno agli ucraini l’obbligo di una resa, destinata nei piani di Putin a diventare da una parte la piattaforma della sua prossima presidenza e, dall’altra, la maledizione di un’Europa costretta a farsi carico del relitto dell’Ucraina. Un relitto tutto da ricostruire al costo – secondo le stime più recenti di Bruxelles – di almeno 452 miliardi di euro.
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