Hanno tutti ragione | Giorgia va in città e ci spiega perché Martufello non è diventato Gian Maria Volontè_hires28804408_large.jpg
Questo è il numero di venerdì 26 gennaio 2024 della newsletter Hanno tutti ragione firmata da Stefano Cappellini. Per attivare l’iscrizione clicca qui
Nel lungo, interminabile piagnisteo della destra italiana sull’egemonia culturale della sinistra ci sono tutti i sintomi di un mai sanato complesso d’inferiorità, uno dei pochi sentimenti sui quali potrebbe non essere in torto, del resto, diceva Satta Flores, Nocera resterà inferiore finché darà i natali a gente come voi. Nel puerile schemino dei missini – tali sono rimasti nella testa oltre che nel cuore – dal secondo dopoguerra in avanti la sinistra ha occupato militarmente la cultura e se ne ritiene tuttora proprietaria, cosa che avrebbe impedito ad artisti e intellettuali della sponda opposta di essere riconosciuti nella loro grandezza. Ciò non toglie che alcun missino sia in grado di dare concretezza al concetto e rispondere a una semplice domanda: sapreste dire il nome di uno, anche uno solo, tra registi, scrittori, filosofi che non si è visto riconoscere il suo posto nel gotha del pensiero nazionale in quanto di destra e dunque schiacciato dalla cappa rossa?
Il missino è intimamente convinto che, se non c’è La Storia scritta da una Elsa Morante di destra, o un Novecento girato dal Bertolucci sovranista, se Martufello non è diventato Gian Maria Volontè, e se Scrittori e popolo lo ha scritto Asor Rosa anziché Pingitore, è perché così le conventicole hanno voluto. Ne era convinto pure Sergio Castellitto quando Caterina andava in città e infatti oggi sta a dirigere il Centro sperimentale di cinematografia, Castellitto, non Caterina.
A questo vulnus storico la destra meloniana è convinta di poter rimediare rivoltando come un calzino l’organigramma burocratico delle istituzioni culturali del Paese (ha ragione la nomenclatura di Fratelli d’Italia a rivendicare di non essere ferma agli anni Venti del secolo scorso, la sua cornice ideale sono infatti i Cinquanta, con i postfascisti a sognare l’immediata rivincita). Con zelo sangiulianesco, con impeto molliconiano si nomina, si indice, si proclama, “via i circoletti” dice pure Meloni, vittimista sincera e autentica ma comunque sempre la più furba della compagnia, consapevole che i voti di chi si ritiene azzoppato nella carriera dal capo ufficio o tarpato per quel geniale manoscritto rifiutato da Feltrinelli ed Einaudi sono tanti e sempre pronti a premiare chi offre l’alibi migliore per il fallimento.
Di questa destra aspirante egemone culturale colpisce sempre, prima di tutto, la sproporzione tra le ambizioni e le possibilità: anni di lamentele e annunci di terra promessa per poi finire sempre, appena si hanno i mezzi per fare, a un convegno sui futuristi, una candidatura per Buttafuoco e Veneziani e una mostra sull’incolpevole Tolkien.
Ma la sproporzione è nulla in confronto all’ingenuità. Il missino ha dell’egemonia culturale una visione meccanica: io politico promuovo l’intellettuale, l’intellettuale crea consenso e porta voti, io politico mi rafforzo e produco ancora più intellettuali organici. La visione è quella del pensatore o dell’artista che con fervore porta l’acqua con le orecchie al principe, nella convinzione che così la sinistra abbia fatto la fortuna sua e dei suoi sodali di pensiero. Solo che la storia dell’intellettualità di sinistra è invece tutta diversa: conflittuale e dialettica, scontri, scomuniche, feroci dibattiti pubblici a colpi di articoli e di interi libri. Sciascia, Vittorini, Pasolini, Morante stessa, e ancora Bellocchio, Ferreri, Pietrangeli, e poi Fortini, Eco, Pintor – perdonerete l’elenco parzialissimo – hanno trascorso una parte rilevante della loro vita intellettuale o artistica a polemizzare con la propria cultura politica, a indagarne le contraddizioni politiche, umane, morali. Invece la caratteristica principale degli intellettuali di destra (con poche lodevoli eccezioni, una su tutte: Giordano Bruno Guerri) è la adesione acritica, la lode sperticata, la difesa da talk show. Oggi più di ieri, vista la permalosità della presidente del Consiglio. Se a questi personaggi chiedete dei mali del mondo, rispondono: il pensiero unico. Se chiedete loro un difetto di Meloni sono capaci di rispondere: è troppo buona. Sono come Sordi nella Grande guerra (del grande Mario Monicelli che nel 1963, conculcato dal clima, girò I compagni invece de I camerati), quando in trincea il generale gli chiede com’è il rancio e lui pavido risponde: “Ottimo e abbondante, signor generale”. La differenza è che il leader missino non risponderebbe mai a Sordi come il generale: “E invece è uno schifo, sciacquatura di marmitte”.
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