Giovanni Toti, il prigioniero politico che deve rimanere ai domiciliari perché non si è lasciato intimidire e non si è dimesso

giovanni toti, il prigioniero politico che deve rimanere ai domiciliari perché non si è lasciato intimidire e non si è dimesso

Giovanni Toti

Prigioniero all’infinito. Giovanni Toti dovrà restare al carcere domiciliare, non si sa fino a quando. E non si capisce bene neppure il perché, a leggere l’ordinanza con cui la giudice Paola Faggioni respinge la richiesta di libertà presentata dall’avvocato Stefano Savi. Perché questa inchiesta è sempre più simile al gioco dell’oca, in cui non solo si può andare in prigione, ma anche tornare ripetutamente al “via”, il punto di partenza. Che consiste poi come sempre, perché queste inchieste sono a schema fisso, nelle indagini della guardia di finanza, che poi compaiono nel fascicolo e nelle richieste del pm e poi, e questo purtroppo ormai non sorprende più, nelle ordinanze del gip.

E quella di ieri della giudice Faggioni, che respinge la richiesta di libertà poiché “non sono emersi elementi sopravvenuti idonei a modificare…il grave quadro indiziario”, è uguale a quella con cui il 7 maggio sono state applicate le manette carcerarie all’ex presidente dell’Autorità portuale di Genova Paolo Emilio Signorini e quelle domestiche a Giovanni Toti, l’imprenditore Aldo Spinelli e l’ex capo di gabinetto della Regione Liguria Matteo Cozzani. Come se nel frattempo Giovanni Toti non fosse stato sottoposto a otto ore di interrogatorio e non avesse puntualmente risposto alle 180 domande dei magistrati. Non ha negato niente, e questo pare persino infastidire, quasi come se nel gioco delle parti processuali all’indagato spettasse sempre il compito di negare gli addebiti, oppure, “messo alle strette”, non “aver potuto che ammettere”.

Invece è capitato che a Genova, proprio all’interno di quel porto che è molto citato nelle carte dell’accusa, e tra un pezzetto di focaccia e l’altro, il governatore della Liguria abbia spiegato la destinazione di ogni euro ricevuto, dei 74.000 contestati come oggetto di corruzione, come contributo elettorale per la sua Lista. Non ci son mazzette. Ma i magistrati, sia i pm che hanno dato parere negativo alla sua scarcerazione che la giudice Faggioni, credono che ci sia dell’altro. E ritengono molto sospetto, “allusivo”, il fatto che in alcune conversazioni, i protagonisti, che poi sono sempre gli stessi, dicano che “per il resto” poi se ne sarebbe riparlato. È chiaro che il “resto” non può essere altro che qualche mazzetta illegale, da aggiungere ai versamenti ufficiali. Benissimo, ma dove sono questi soldi? Qualcuno li ha trovati? Perché in una inchiesta per corruzione, la vera pistola fumante non può essere che il “malloppo”.

E qui, in quattro anni di indagini, partite da La Spezia nel 2019 dal suo capo di gabinetto Matteo Cozzani e poi approdate a Genova dove si sono estese alla persona di Toti, sorvegliato in ogni sua attività, possiamo dire giorno e notte, di prove non è apparsa l’ombra. Solo ipotesi, che dietro ogni operazione, la più importante delle quali è il rinnovo trentennale della concessione del Terminal Rinfuse alla società dell’imprenditore Spinelli e dell’armatore Aponte, ci sia stata una ricompensa in denaro. Complessivi 74.000 euro in diversi periodi legati a quattro tornate elettorali, a fronte di affari miliardari. Bel masochista, questo presidente corrotto. Proprio quattro lenticchie. Furbo come una faina, però. “Comp or ta men to el usivo ” nel lo scegliere sempre luoghi riservati per gli incontri con gli imprenditori, come una barca o una casa. Oppure un bar, come “Le Cicale”, nel quartiere snob di Albaro, luogo molto sospetto perché “…c’è spazio, non ci rompe il cazzo nessuno e si può parlare…passano le macchine e c’è rumore di fondo…”. Se Toti ha citato il rumore di fondo di una strada, sicuramente è stato per sottrarsi a qualche controllo, arguisce la giudice. Quindi in definitiva, se il luogo è una casa o una barca è sospetto perché troppo appartato, se invece è un posto pubblico, guai a che sia rumoroso, perché non si può intercettare bene.

È chiaro che i magistrati sono persone troppo serie per non capire quanto ridicole siano queste affermazioni scritte in un atto importante come l’ordinanza di un giudice. In ogni caso, l’opinione della gip Faggioni è granitica. Il presidente, qualora fosse liberato, potrebbe influenzare tutto quanto il personale dell’intera Regione, dal momento che ogni dipendente è oggi un potenziale testimone, una persona informata sui fatti. Alcune udizioni sono già in corso. Ma quanto dureranno? Al termine, il governatore non potrebbe più influenzarli, e quindi inquinare le “prove”, ma è chiaro che il motivo principale per cui Giovanni Toti deve rimanere agli arresti è un altro.

O forse le ragioni sono due. La prima è che, inaspettatamente, i magistrati sono trovati al cospetto di un politico che non si è fatto intimidire, che non si è presentato con il cappello in mano, che non si è affrettato a dare le dimissioni. Che anzi, nel lungo interrogatorio, ha rivendicato le proprie capacità di bravo amministratore, di efficiente mediatore, come nella vicenda del Terminal Rinfuse. La seconda ragione è la tenuta dell’intera compagine politica che ha eletto per due volte il governatore al vertice della Regione Liguria. Nessuno ha chiesto dimissioni a Toti, e lui stesso ha già chiarito che l’eventuale decisione sarà collettiva. Tutto ciò pare intollerabile, nello schema cui sono abituati i magistrati in Italia negli ultimi trent’anni. Tanto che la sensazione che si avverte in questa inchiesta genovese è che ci si aspetti da questo indagato così anomalo, non solo che si dimetta dalla presidenza della Regione, ma addirittura dalla politica. Ma intanto, guidato dall’avvocato Stefano Savi, che pare tosto almeno quanto lui, Giovanni Toti presenta ricorso al tribunale del riesame. E vedremo se si aprirà uno spiraglio o se continuerà il gioco dell’oca

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