Yamaha e l’ossessione per le basse potenze

yamaha e l’ossessione per le basse potenze

Yamaha e l’ossessione per le basse potenze

Mi sono appassionato alle moto a metà degli Anni 80, dominati dalle aziende giapponesi che all’epoca, anche se sembravano esserci state da sempre, erano praticamente appena nate. Yamaha, ad esempio, aveva già un secolo di vita come produttore di strumenti musicali ma era partita con le moto nel 1955, nemmeno trent’anni prima.

Trent’anni, però, sono abbondantemente sufficienti per capire il carattere, di una persona come di un’azienda; e anche se allora non era chiaro, se c’è una costante nella storia di Yamaha è quella di rifuggire dalle grandi potenze. Non parliamo delle corse, è chiaro (già in quel periodo Yamaha se la giocava con Honda e Suzuki nel Mondiale Velocità e nel Mondiale Motocross senza ovviamente lesinare sui cavalli) ma della produzione di serie, dove già allora Iwata aveva iniziato a seguire il mantra della guidabilità prima di tutto. Anche – se non soprattutto – prima della potenza.

Bisogna ricordare che se oggi la potenza è ormai sovrabbondante già a partire dalle medie cilindrate, quarant’anni fa non era così. I cavalli piacevano, servivano, facevano la differenza. Per cui rinunciare deliberatamente a riempire la stalla era una scelta davvero controcorrente.

Specie se lo facevi con le sportive. Negli Anni 80 si affacciavano le prime maxi, ma per qualche stagione i sogni degli appassionati furono rapiti dalle 250 e 500 2T: e lì era Suzuki che dettava legge con le sue Gamma. La Yamaha RD 500 LC era bellissima, ma decisamente meno dotata della RG 500 Gamma e vendette un quinto, forse meno. Quanto alle 125 2T, nonostante Yamaha fosse sempre all’avanguardia nella tecnologia dei motori a miscela le sue ottavo di litro erano nettamente inferiori alle realizzazioni italiane, e anche lì le vendite languirono. Solo la RD 350 LC era popolare ma più che altro per il rapporto qualità/prezzo, o più propriamente per il rapporto potenza/prezzo, visto che era più dotata di una 250 costando quasi uguale e non aveva di fatto rivali sul mercato.

Tramontata la breve era delle 2T, l’ossatura dell’offerta Yamaha fu a lungo la piattaforma Genesis della serie FZ: motore quattro cilindri inclinato in avanti e con distribuzione a 5 valvole. Pur con tutte quelle valvole, le FZ 750 non sono mai state mostri di potenza, anzi; e Fabrizio Pirovano che le portò in SBK doveva fare miracoli per compensare il gap di potenza rispetto alle altre giapponesi. Iwata provò a imboccare la via della potenza con le serie speciali OW, che però rimasero oggetti esotici e senza particolare successo.

Le sportive del tre diapason furono per un lungo periodo quasi sconcertanti. Le Thundercat 600 e Thunderace 1000 erano goffe e inferiori alla concorrenza Honda, Suzuki e Kawasaki quanto a cavalleria. Le YZF-R1 (1997) e YZF-R6 (1998) furono fra i pochissimi modelli con potenze da riferimento, ma la R1 rinunciò ben presto alla lotta per il vertice prestazionale: addirittura dichiaratamente quando nel 2009 apparve la versione CP4 con l’albero a croce, un unicum tecnico mondiale che, indovinate un po’, sacrificava la potenza massima alla ricerca di maggior guidabilità.

La stessa filosofia fu applicata alle Yamaha della rifondazione dopo la crisi del 2008. Per abbassare i suoi prezzi a livelli che ancora oggi le consentono di competere con la concorrenza cinese, Yamaha rivoluzionò le sue catene di fornitura ma anche la sua offerta. Il primo modello fu la MT-09, fun-bike di ispirazione motard: potente, ma non certo la più potente, e per di più con prestazioni rimaste praticamente costanti nei 10 anni successivi. Notare che il suo CP3 da 847, poi 890 cc, con l’imminente pensionamento della R1 diventa di fatto il motore di più grande cilindrata offerto da Yamaha sul mercato europeo, arrivando a spingere una granturismo come la Tracer 9 GT+ che deve confrontarsi con rivali di cilindrata ben più alta.

Vogliamo parlare di off-road? Ripartendo dai favolosi Ottanta, l’altro lato della passione di allora era occupato dalle dakariane: e la Yamaha Ténéré 600 con i suoi 40 CV non era certo un mostro di potenza. Le pur morigerate Honda XL 600 Paris-Dakar avevano più birra, per non parlare delle Suzuki DR 600 e Kawasaki KLR 600; anche le nostre Gilera, Cagiva e Aprilia erano più potenti, pur non potendo vantare lo stesso fascino (e affidabilità) nemmeno quando arrivarono a correre la Dakar.

La Ténéré 600 fu seguita nel decennio successivo dalla Ténéré 660, monocilindrica che nonostante la distribuzione a 5 valvole non si fece mai notare per l’abbondante potenza, anzi resta nella memoria – insieme alle sue sorelle enduro e motard – come uno dei monocilindrici più regolari e paciosi dei tempi moderni.

Lo stesso motore fu montato sulla prima MT-03, una naked alternativa nata sull’onda della MT-01, vera e propria dichiarazione di intenti datata 1999: una maxi-naked sportiva mossa da un motore non a quattro cilindri, bens’ V-twin di derivazione custom: tanta coppia e poca potenza. Una moto piena di personalità, ma troppo alternativa rispetto ai gusti dei motociclisti hardcore: nonostante le aspettative, non sfondò ma, riveduto e corretto, aprì la strada alla serie MT che oggi è al cuore di tutta l’offerta motociclistica Yamaha.

Ci torneremo fra poco; intanto vale la pena ricordare che l’eredità della Ténéré 600 fu raccolta anche dalla bicilindrica Super Ténéré 750 che doveva rispondere alle fortune dell’Africa Twin. Lo fece senza particolare successo, ma il suo motore animò una delle prime crossover della storia, la TDM 850 e poi 900: la potenza scarseggiava, ma abbondavano la facilità e il godimento alla guida.

E quando Yamaha (in anticipo su tutti) decise di tornare a cavalcare il fascino delle “navi del deserto” con la Ténéré 1200, la dotò di un twin parallelo la cui erogazione non si poteva certo definire esaltante. La moto andava benissimo in off e anche forte su strada, ma il motore girava basso e lento ed era tutto fuorché sportivo e potente.

La Ténéré 1200 si conquistò un buon numero di appassionati, ma non trovò la formula giusta per contrastare davvero il successo della BMW R 1200 GS a cui tutti avevano cominciato a fare la guerra. Venne pensionata mentre a Iwata si cercava un altro tipo di formula magica, quella per trasformare una naked fatta e finita come la MT-07 in una moto degna di portare il nome Ténéré. Un azzardo anticipato della T7 e perfettamente riuscito il cui risultato, guarda un po’, fu la moto meno potente (oltre che meno sofisticata) della sua categoria – ma che diventò immediatamente la più apprezzata e venduta, e non solo per questioni di marketing. Lo stesso ha fatto la MT-07, divertentissima benché semplice ciclisticamente, priva di elettronica e con un motore sempre fra i meno potenti della categoria.

Se guardiamo alle piccole cilindrate, quando uscirono i primi 125 4T moderni in risposta alla nuova normativa sui 15 CV che stava uccidendo i 2T, in tanti puntarono su dei bialbero superquadri, per offrire un’erogazione brillante agli alti. Yamaha (attraverso l’allora suo braccio europeo Minarelli) rispose con un monoalbero a corsa lunga, con tanta coppia e una gran regolarità di erogazione: e quel motore dopo oltre 20 anni resta il riferimento del settore per facilità e piacere di utilizzo…

Facciamo un cenno anche al motocross, dove se la YZ450F è da sempre fra le più potenti della categoria, la diffusissima YZ125 ha una potenza nettamente inferiore alle rivali austriache ed è stata aggiornata soltanto con il MY22, dopo non aver mai smesso di stregare frotte di ragazzini con un motore praticamente immutato dal 1994 ma una ciclistica dalla guidabilità sovrannaturale.

Parliamo di tendenze e non di dogmi, ovviamente: la mitologica V-Max del 1985 rimase per anni la più potente al mondo coi suoi 145 CV; la R1 del 1997 si pose volutamente come la moto più potente (ma anche più guidabile grazie a diverse innovazioni tecniche) in circolazione, la FZ1 da 150 CV fu a lungo la regina delle potenze tra le maxi naked e la citata YZ450F da cross è sempre stata ai vertici della MX1 in termini di cavalleria. Ma sono praticamente eccezioni, perché come abbiamo visto quasi mai Yamaha ha proposto la moto più potente in circolazione e quasi sempre – con le Ténéré, con le MT, con le 125 – ha vinto il confronto sul mercato e spesso anche in pista.

Tornando alle corse, qui giova ricordare che la YZF500 con due alberi motore è sempre stata meno potente della Honda NSR500 ad albero singolo, e che la MotoGP ha riproposto lo stesso approccio: la M1 non è mai stata la moto più potente in pista e addirittura era nata, agli albori della categoria, come unica moto factory a carburatori, nel tentativo di preservare quella guidabilità e facilità di utilizzo che le iniezioni di allora non sempre offrivano.

Insomma, non è un caso ma una questione di mentalità, di filosofia. Una filosofia di cui non si è mai parlato tanto. Si è sempre detto della inclinazione di Yamaha a sperimentare con le ciclistiche, della sua tecnologia spesso alternativa; ma quasi mai si riflette sulla sua predilezione per il contenimento delle potenze. Meno cavalli = più successo: un’equazione che alla maggioranza dei motociclisti puà sembrare impossibile, ma che Iwata risolve brillantemente da decenni.

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