Treviso. Adriano Panatta, l'ex campione di tennis: «Amo il tiramisù ma non toccatelo»

treviso. adriano panatta, l'ex campione di tennis: «amo il tiramisù ma non toccatelo»

Treviso. Adriano Panatta, l'ex campione di tennis: «Amo il tiramisù ma non toccatelo»

TREVISO - Adriano Panatta, leggenda del tennis italiano, classe 1950, segno del cancro, romano de Roma ma da anni in Veneto per questioni di cuore, dove dirige da quattro anni il suo Racquet Club, appena fuori Treviso, a due passi dalla benettoniana Ghirada. Commentatore, volto tv e radiocronista in quota Rai, ricercatissimo da quando è scoppiata l'era Sinner e l'Italia ha vinto la Davis, o quel che ne resta, lo abbiamo visto con tanto di regolamentare grembiule in cuoio affiancare Fabrizio Nonis, el Bekér, nella grigliata del 1. maggio scorso.

Passione vera o concessione a favore di fotografi e telecamere?

«Nessuna sceneggiata, a me piace sia mangiare sia cucinare. Poi la parte del leone l'ha fatta Fabrizio, un maestro della griglia e della carne. Io ho solo aiutato un po' e cercato di carpire qualche segreto. Ma onestamente ho più mangiato che cucinato».

Pare che invece sia un ottimo cuoco

«A sentire gli amici direi che me la cavo proprio bene. Infatti poi tornano tutti. Del resto cucinare mi piace veramente, mi diverte e rilassa. E quando lo faccio mi occupo di tutto, a cominciare dalla spesa».

Specialità?

«Ovviamente la cucina romana, anche se adoro anche quella napoletana, che profuma di sole e di mare. Ma il dna spinge verso Cacio e Pepe, Carbonara e Amatriciana che amo molto e, infatti, si trovano anche nel mio ristorante, qui al Club. Poi i Carciofi con la coratella, la Trippa alla Romana, anche se qui in Veneto faccio fatica a trovare la mentuccia. E poi la Coda alla Vaccinara che mi fa venire in mente un aneddoto».

Sarebbe?

«Appena inaugurato il Club abbiamo fatto una cena, con 200 ospiti. Nel menu ho infilato a sorpresa la Coda e l'ho cucinata io. Mi dicevano che non l'avrebbe mangiata nessuno invece se la sono spazzolata. Il mio segreto? Un tocco di cacao amaro alla fine».

Dolce o salato?

«Salato, anche come cuoco. Il dolce è matematica, se sgarri sei finito. Il salato ti concede più margini di errore. E comunque non sono un patito dei dolci».

Si racconta che spesso cucinasse anche per i suoi compagni di squadra in occasione delle trasferte di Coppa Davis.

«Vuol dire la Coppa Davis quella vera? E certo. Quando si partiva per trasferte lunghe e disagevoli, negli Stati Uniti, in India, in Cile, il bagaglio comprendeva anche pasta, pelati e parmigiano. E qualche volta la sera cucinavo io per tutti».

Era difficile seguire una dieta quando giocava?

«No, veniva naturale, sapevi che da professionista non potevi sgarrare. Il cibo è il carburante delle tue prestazioni e se il carburante è sbagliato lo paghi in campo. Certo, quando perdevo e uscivo da un torneo, sapendo che il giorno seguente non avrei giocato, a cena mi concedevo qualche strappo alla regola».

Tipo?

«La lasagna, che qui chiamate pasticcio. Pura goduria, fra ragù e besciamella. Se devi peccare fallo bene. Ma una cosa è trasgredire una volta tanto, un'altra alimentarsi in modo sbagliato».

Piatti veneti amati?

«Sicuramente la Pasta e fagioli che fate proprio bene. E poi il baccalà mantecato. E anche se non sono un patito dei dolci, il Tiramisù. A patto che non sia rivisitato: la sola parola mi fa venire i nervi. Il Tiramisù è un capolavoro assoluto nella sua semplicità, ma che voi rivisità?»

Insomma, mangiare le piace, il rapporto con il cibo è positivo.

«Non sono un mangione ma è un vero piacere, sempre senza esagerare ovviamente. E comunque saltare un pasto non è previsto».

Cucina stellata o tradizionale?

«Sono per la tradizione, dopodiché se capita qualche incursione stellata la faccio. Ad esempio da Davide Oldani, a Cornaredo, fuori Milano, siamo molto amici, un vero fuoriclasse, con lui non posso competere, un po' il Sinner della cucina, bravissimo ma anche molto preciso, perfetto in quello che fa e come si presenta. Poi Vissani, altro amico, nella sua imprevedibilità mi ci rivedo. Ai tempi sono stato più di una volta da Gualtiero Marchesi, persona speciale anche per cultura. Un vero maestro di educazione, bravura ed eleganza, un po' il Federer della cucina. Infine Fulvio Pierangelini, altro genio imprevedibile e libero di mente. Ma il problema degli stellati è anche un altro.»

Sentiamo

«ÃƒË† che spesso non li trovi. Uno ci va anche per conoscerli, invece molti di loro hanno così tanti interessi collaterali che al ristorante ci stanno poco. Marchesi, ad esempio, c'era sempre. Ducasse, a Montecarlo, quando lo trovi? Ci sono stato, all'Hotel de Paris a cena, tutto bellissimo, ma lui chi l'ha visto?».

Insegne del cuore nella sua nuova vita, fra Treviso e Venezia?

«Per anni il mio preferito è stato Menegaldo, a Monastier. Oggi vado volentieri da Ombre Rosse, a Preganziol, e non solo perché è vicinissimo al Club. Il locale è carino, si sta bene, e Claudio è un oste perfetto, simpatico, accogliente e con una grande cantina e una grande conoscenza del vino».

A proposito di vino, come siamo messi?

«Non sono un bevitore, ma un paio di bicchieri a cena me li concedo, ma non sempre. Poi qualche birra, ma, ripeto, con molta moderazione».

Poco ma buono, insomma. Bianco, rosso, bollicine?

«Se bollicine per me deve essere champagne, con tutto il rispetto per il prosecco che trovo comunque gradevolissimo. Per il resto preferisco il rosso anche se qui trovo dei bianchi che meritano. Sempre all'insegna della qualità che è un po' la rotta che tengo anche in fatto di cibo. A me piace mangiare a casa, quando vado fuori per un'occasione speciale o con gli amici ne deve valere la pena, anche perché, specialmente adesso che ho anche un ristorante, sono diventato più attento e mi accorgo di tutto quello che non va».

Torniamo ai ristoranti del cuore. Venezia?

«Le Antiche Carampane è fra i miei preferiti. Poi l'Harry's Bar, per l'atmosfera unica e anche per chiacchierare con Arrigo Cipriani, sempre geniale. Sono stato spesso ai Do Forni, altro grande classico. Come la Locanda Cipriani a Torcello, un posto magico».

Indirizzi in agenda per il futuro?

«Cera, a Campagna Lupia, e Le Calandre».

Quali prodotti porterebbe per quindici giorni in un'isola deserta?

«Pasta, pelati, parmigiano, basilico, olio extra vergine».

Due settimane a spaghetti al pomodoro?

«Assolutamente sì. È forse l'unico piatto che non mi annoierebbe mai».

Dicono che chiedere all'oste se il suo vino è buono sia un'ingenuità e una perdita di tempo. Ma io glielo chiedo lo stesso: come si mangia nel suo ristorante?

«Si mangia bene, garantito. Provare per credere. Oltre ai classici romani, i piatti delle tradizione italiana, semplici ma preparati con cura e competenza. E, soprattutto, il Tiramisù non è rivisitato».

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