Contro la Cina, i marines riattivano la base sull’isoletta della Micronesia conquistata nel 1944

contro la cina, i marines riattivano la base sull’isoletta della micronesia conquistata nel 1944

Contro la Cina, i marines riattivano la base sull’isoletta della Micronesia conquistata nel 1944_First_wave_of_LVTs_moves_toward_the_invasion_beaches_-_Peleliu

Corsi e ricorsi storici. Nell’estate del 1944 i Marines hanno combattuto una battaglia all’ultimo sangue per strappare ai giapponesi la minuscola isola di Peleliu, nelle acque della Micronesia. Ottant’anni esatti dopo, la fanteria di marina statunitense torna nello stesso posto per riattivare l’aeroporto Sledge, nuovamente strategico nella sfida con la Cina.

Il confronto militare tra Washington e Pechino rischia di somigliare a un dejavu della campagna contro Tokyo: si avanza atollo dopo atollo, per utilizzarli come trampolino di lancio e allungare il raggio d’azione dei bombardieri in modo da bloccare i movimenti aerei o navali del nemico. Oggi però oltre alle piste per l’aviazione si prevede di installare missili, droni e sistemi di disturbo elettronico. L’importanza delle isole è tale che i cinesi ne hanno costruito di artificiali, cementando la barriera corallina per costruire delle fortezze hitech destinate a minacciare i passaggi chiave del traffico marittimo. Una delle risposte del Pentagono è la riscoperta di un passato glorioso e drammatico, rimettendo in servizio le infrastrutture che nell’ultimo conflitto mondiale hanno permesso la riconquista del Pacifico. Così un quadrimotore da trasporto C-130 J dei Marines sabato scorso è atterrato sull’identica striscia di terra battuta usata dai bisnonni dei piloti per sconfiggere l’armata del Sol Levante. Si tratta di una versione “cisterna” del celebre Hercules: può fare il pieno di carburante ai caccia F35B in grado di decollare in poche decine di metri o rifornire in volo jet di altri modelli, moltiplicandone l’autonomia: un elemento fondamentale nei piani di deterrenza per contenere l’espansionismo cinese.

Peleliu, circa quattrocento abitanti e parte dello staterello di Palau, finora veniva visitata solo da qualche turista attratto dalla quantità di relitti bellici, alcuni dei quali sommersi nelle acque cristalline: la memoria di uno scontro feroce. Ottant’anni fa 50 mila marines hanno lottato per due mesi e mezzo contro 12 mila giapponesi: un americano su tre è stato ucciso o ferito, il livello di perdite più alto in assoluto negli assalti anfibi. Soltanto 360 nipponici si sono arresi: il resto è caduto o si è suicidato. Il comandante della Prima Divisione, William Rupertus, aveva previsto che l’isola sarebbe stata occupata in quattro giorni. Ignorava che era stata riempita di bunker e postazioni scavate nella roccia, perfettamente mimetizzate: gli americani sono stati accolti da un tiro incrociato, che in un’ora ha distrutto sessanta mezzi da sbarco. L’unico riparo erano gli alberi di noce di cocco, dietro i quali decine di uomini strisciavano per sfuggire ai colpi di mortaio. Quelli che sono riusciti a raggiungere l’aeroporto si sono trovati davanti un contrattacco dei tank nipponici, spuntati all’improvviso dalla giungla. Non a caso, quella spiaggia è stata ribattezzata “Bloody Beach”: in una mattinata si contarono 1.100 tra morti e feriti. Il caldo era atroce: il termometro segnava 46 gradi e le avanguardie non avevano scorte d’acqua.

Gli americani sfruttarono tutta l’artiglieria delle navi e stormi di cacciabombardieri, che seminavano napalm sui bunker nascosti tra gli alberi: appena resa sicura la pista, gli aerei Corsair cominciarono a decollare senza sosta per tirare razzi sulle caverne distanti pochi chilometri. I difensori però non hanno mai rinunciato ad andare all’attacco: la compagnia statunitense mandata a espugnare la roccaforte sulla punta meridionale ha avuto 157 caduti, solo 18 fanti sono rimasti in grado di sparare.

Il peggio li aspettava sul monte Umurbrogol, dove si erano asserragliati i giapponesi: la resistenza è proseguita per due mesi ed è stato necessario mandare un’altra divisione di rinforzo. Il 24 novembre il generale Nakagawa ha proclamato:”La nostra spada è rotta e abbiamo finito le frecce”, poi ha fatto harakiri. Alcuni dei suoi uomini hanno proseguito le imboscate fino al 15 gennaio 1945. Nell’aprile 1947 sono stati scoperti ventisette soldati barricati in una grotta: si sono arresi soltanto quando un ammiraglio venuto da Tokyo li ha convinti che la guerra era finita. Si è calcolato che siano serviti 1.500 proiettili per uccidere ciascuno dei giapponesi: una statistica che non richiede commenti.

L’aeroporto che adesso torna in funzione è stato chiamato Sledge in onore di Eugene Sledge, un marine e scrittore che ha ispirato alcuni episodi della serie Hbo “The Pacific”, prodotta da Steven Spielberg e Tom Hanks nel 2010: è tutt’ora disponibile sulla piattaforma Sky e rende perfettamente la crudeltà di quella battaglia. Le immagine sono prive di retorica: c’è solo disperazione. Un monito che non va dimenticato.

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