Non è autonomia, ma la rottura del Paese
Non è autonomia, ma la rottura del Paese
Oggi la Camera dovrebbe approvare definitivamente il disegno di legge sulla cosiddetta “autonomia differenziata”. Sui presupposti della sciagurata riforma del Titolo V della Costituzione, voluta dal centrosinistra nel 2001, potrebbe realizzarsi il vecchio proposito leghista di rompere l’unitarietà della Repubblica, nell’interesse delle regioni ricche del nord.
Senza entrare nel merito del testo “Calderoli”, è utile ricordare che attualmente, a norma dell’art.117 della Costituzione, le regioni a statuto ordinario hanno già “potestà legislativa” nelle 23 materie di legislazione concorrente. “Salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”. L’autonomia – nell’accezione costituzionale di “ampio decentramento amministrativo”, come recita l’art. 5 - quindi c’è già. Perché allora questo accanimento da parte della Lega e dei suoi presidenti di regione? Forse perché vogliono fissare i principi fondamentali in materie come la tutela della salute, l’istruzione, la sicurezza sul lavoro, la ricerca scientifica, il governo del territorio, ecc.? Anche. Ma la partita vera è sulla cassa. Dietro l’idea di autonomia differenziata – ieri del federalismo fiscale, della devolution – c’è il concetto truffaldino di “residuo fiscale”: la differenza tra quanto un territorio versa sotto forma di tasse allo Stato e quanto da quest’ultimo riceve sotto forma di spesa pubblica. Ma in Italia non esistono le tasse dei veneti e le tasse dei calabresi. Le tasse sono degli italiani e l’erario è quello dello Stato, che utilizza i proventi della raccolta fiscale per politiche pubbliche a valere sull’intero territorio della “nazione”. No, dicono i leghisti: le tasse dei veneti devono rimanere in tutto o in parte ai veneti, quelle dei lombardi ai lombardi, quelle dei calabresi ai calabresi. La chiamano “compartecipazione al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale”, significa scappare con la cassa e sfasciare il Paese.
D’altra parte, che convenienza ci sarebbe nel chiedere “ulteriori forme di autonomia” senza soldi? Nel testo di riforma c’è scritto che dalle intese “non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. Significa che chi ha di più, sotto forma di gettito fiscale, farà meglio la sua sanità, le sue infrastrutture, i suoi servizi; chi ha di meno, quindi il sud, potrà votarsi ai Santi. Con l’aggravante che tutto questo, regione per regione, verrà stabilito in camera caritatis, in una Commissione paritetica Stato-Regioni, fuori dal parlamento, che è espressione della sovranità popolare.
Che dire poi dei “principi fondamentali”? Il rischio è la riduzione a brandelli del Paese, e di un cortocircuito tra scelte regionali e principi costituzionali. La fine della Repubblica “una e indivisibile”. Un rovesciamento del significato solidale e democratico dei concetti di autonomia e di decentramento, che i costituenti trasfusero nell’art.5 della Carta raccogliendo certe istanze di libertà che nei territori, soprattutto al nord, erano maturate in opposizione al centralismo fascista (esemplari alcune pagine de L’orologio di Carlo Levi su questo punto).