Riforme a singhiozzo, liti su bonus, ruspe ferme e retromarce: così la volata elettorale per il governo è diventata una maldestra infilata di guai

riforme a singhiozzo, liti su bonus, ruspe ferme e retromarce: così la volata elettorale per il governo è diventata una maldestra infilata di guai

Convegno Svolte sulla strada della sicurezza

Il set era allestito, prometteva una volata elettorale scintillante. Il premierato, i centri migranti in Albania, una spruzzata di bonus tredicesime. E magari qualche opera pubblica, la posa del primo cassone della diga del porto di Genova e, perché no, la prima pietra del Ponte sullo Stretto.

Maggio era l’orizzonte, le Europee e amministrative dell’8-9 giugno l’obiettivo. Ma poi qualcosa è andato storto. Tempi troppo stretti, riuscire un’illusione. E la volata di maggio si è trasformata in una maldestra infilata di guai. Sommati a forzature malriuscite.

Niente voto sulle riforme, solo polvere e ruspe in Albania, bonus rimpicciolito. E poi liti con i tassisti, tensioni con i balneari, stangata sul Superbonus, braccio di ferro con le società di calcio. E il gigantesco errore di calcolo del redditometro. Un’ultima carta restava, vecchia ma sempre preziosa: la sicurezza. Un ddl dimenticato da mesi in Parlamento: più reati, pene inasprite, un messaggio subliminale perfetto per gli elettori della destra. Votiamolo subito, cinque giorni e via: ecco l’input arrivato dal governo. Un blitz tanto pretestuoso, che si è imposta la marcia indietro. Tutto rinviato a dopo le Europee e addio effetto traino sul voto.

Il balletto sulle riforme e la corsa ai decreti

La “madre di tutte le riforme”, Giorgia Meloni l’aveva chiesto ai suoi, doveva essere pronta e approvata almeno in prima lettura entro giugno. Ma le obiezioni al disegno di legge sul premierato sono state tali e tante, il dibattito parlamentare così farraginoso, gli emendamenti delle opposizioni così numerosi (tremila), che è arrivata la resa: il Senato approverà il testo soltanto dopo il 9 giugno.

Intanto però la premier concedeva agli alleati/competitori altrettante riforme, da sventolare come traguardi raggiunti. La Lega otteneva l’Autonomia differenziata, portata in Aula alla Camera con ogni mezzo, la tagliola degli emendamenti e pure l’annullamento di un voto pro-opposizioni in commissione, ma poi fermata lì, a un passo dall’approvazione finale, per non innervosire gli elettori centralisti e anti-autonomisti. Forza Italia pretendeva la separazione delle carriere, nonostante la contrarietà di tutta la magistratura, e incassava la promessa – già smentita - di un via libera in Cdm il 29 maggio, slittato poi al 3 giugno.

Ma a voler accantonare le riforme costituzionali, le cose non sono filate lisce neanche per i decreti del governo (sei in cantiere solo per i due Consigli dei ministri del 24 e 29 maggio), finiti sotto la lente del Quirinale. La riscrittura del decreto di Lollobrigida sull’agricoltura, il braccio di ferro sul mini-condono “Salva casa” di Salvini, il ridimensionamento del bonus tredicesime di Meloni. E ancora, in ordine sparso. La rivolta dei club di serie A contro la norma per il controllo di un’agenzia governativa sui bilanci delle società di calcio. Lo stop alla cessione dei crediti del Superbonus, tra il tentativo di boicottaggio di Tajani e il malcontento di costruttori, banche, proprietari. Lo sciopero dei taxi, al solo annuncio di tre decreti attuativi su taxi e Ncc, attesi dal 2019, cosiddetti taglia code.

E infine, la clamorosa vicenda del Redditometro, lo strumento anti-evasione per scovare le incongruenze tra le spese del contribuente e il reddito dichiarato. Sospeso dal 2018, tirato fuori a sorpresa dal viceministro Maurizio Leo a sedici giorni dalle elezioni e sopravvissuto poco meno di due giorni alle proteste di alleati di governo e avversari di opposizione, nonché alle critiche dei tecnici. Meloni ha provato a gestire la crisi, sminare, tranquillizzare. Poi la retromarcia: decreto “sospeso”. Troppo allarmante per gli elettori, troppo grande il rischio di una bocciatura nelle urne.

I cantieri falliti e la sicurezza arenata

Basta così? Non proprio, perché anche il piano per festeggiare il 20 maggio “l’operatività” di due centri di accoglienza per migranti in Albania, divenuti la bandiera delle politiche migratorie di Meloni, è andato storto. Il Pd, galvanizzato forse dal clima elettorale, è andato pure a controllare: solo ruspe e terra battuta. Ritardi su ritardi, apertura rinviata all’autunno e costi lievitati fino a sfiorare il miliardo di euro in cinque anni.

Salvini provava a consolarsi con il Ponte sullo Stretto, ma dopo aver forzato leggi e contratti, accelerato progetti e controlli, la posa della prima pietra slittava negli annunci dalla primavera a (forse) fine anno. E così restava solo la diga di Genova, opera pagata dal Pnrr, da inaugurare in grande stile il 24 maggio: festa rovinata prima dai rilievi dell’autorità anticorruzione, poi dall’arresto del governatore ligure Giovanni Toti.

Ecco forse perché il governo ha provato da ultimo a rifugiarsi nel caro vecchio tema della sicurezza, nel disegno di legge per inasprire le pene sui piccoli reati, punire gli attivisti ambientali, spedire in carcere le borseggiatrici nel metrò, anche se madri. Perfetto per la propaganda elettorale. Era stato approvato in pompa magna dal Consiglio dei ministri a novembre, per poi finire nel dimenticatoio, arenato, bocciato nelle audizioni per sospetti “profili di incostituzionalità”. L’idea era votarlo all’improvviso in cinque giorni, stampargli sopra il bollino della promessa mantenuta. Ma la forzatura era tanto sguaiata, che le opposizioni sono riuscite a far slittare tutto. A giugno, dopo le Europee, insieme a tutte le altre scorie della stagione elettorale.

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