La sentenza del Tar “Sfrattati“ gli impianti di due colossi delle radio
La sentenza del Tar “Sfrattati“ gli impianti di due colossi delle radio
Due gli impianti, in via Caorle 31 e in Cavina 5. Due i colossi radiofonici, Radio Bruno società cooperativa e Radio Bologna International srl. Una sola conclusione: non possono stare lì. E non è una questione di emissioni elettromagnetiche prodotte: ma di ubicazione. La specifica legge regionale del 2000 del resto "vieta la localizzazione degli impianti per l’emittenza radio e televisiva" nelle aree classificate "a prevalente funzione residenziale o a servizi collettivi", ha fatto notare il Tar di Bologna nelle sentenze gemelle con le quali nei giorni scorsi ha dichiarato infondati entrambi i ricorsi presentati contro il Comune.
Per quanto riguarda l’impianto di via Cavina - si legge nella sentenza a firma del giudice Alessandra Tagliasacchi -, Radio Bologna International lo aveva acquistato attraverso un contratto di cessione di ramo d’azienda stipulato nell’ottobre 2002 con Radio Zero srl. Quello di via Caorle era invece stato acquistato da Radio Bruno nel marzo 2004 sempre grazie a un contratto di cessione di ramo d’azienda con Rcb Radio Castelbolognese. Per entrambi, nel maggio 2018 s’era fatto sotto il Comune chiedendo un piano di delocalizzazione. Via da lì insomma: per effetto del Pplert, il piano provinciale di localizzazione dell’emittenza radio e televisiva approvato nel novembre 2006 alla luce della specifica legge regionale del 2000.
Nessuna delle due radio aveva accettato di buon grado di spostarsi: e per una serie di ragioni fissate negli appositi ricorsi. Innanzitutto perché mai il Comune aveva atteso ben 17 anni dalle autorizzazioni per dire che l’impianto avrebbe dovuto essere spostato in forza di un piano, il Pplert, approvato 12 anni prima? E poi nel frattempo la situazione radioelettrica era cambiata. Che dire inoltre del fatto che i limiti alle emissioni elettromagnetiche sono fissati da un decreto ministeriale del 2003 mentre il Comune ha ordinato di delocalizzare basandosi solo su un vecchio Pplert e senza motivazione alcuna. Un ordine che peraltro - sempre secondo i ricorsi delle radio - impediva di esercitare un’attività autorizzata con decreti ministeriali; di servire l’attuale bacino d’utenza; e incideva su audience e raccolta della pubblicità: come dire, un attentato alla libertà di manifestazione del pensiero e dell’iniziativa editoriale.
Per la corte bolognese - presieduta dal giudice Ugo Di Benedetto - la questione è tuttavia ancora più semplice e netta: "Senza prendere in alcun modo posizione sulle tesi esposte" dalle due radio, "è sufficiente osservare che la delocalizzazione" degli impianti di cui si discute, è fondata sulla loro posizione e prescinde "dalle emissioni elettromagnetiche prodotte".
Insomma, è del tutto "irrilevante l’eventuale aumento delle soglie limite di emissione". In quanto al Pplert, come "rilevato dalla difesa comunale", non può essere messo in discussione perché "non è stato tempestivamente impugnato". Ma soprattutto di mezzo c’è la legge regionale del 2000: e il Comune "altro non poteva fare che ordinare la delocalizzazione" dei due impianti.
Andrea Colombari