Il caso Fanpage e i doveri del buon giornalismo
Un giornalista può fingere di essere un militante di un partito, per conoscerne dall’interno le idee, le pulsioni e i sentimenti profondi? E ciò costituisce una preoccupante novità e un rischio per le democrazie, come sostenuto dal presidente del Consiglio sino a evocare pratiche di regimi autoritari e invocare un intervento del capo dello Stato?
Il tema è serio: ogni associazione può ragionevolmente aspirare a che ciò che si dice nelle proprie riunioni resti all’interno dei partecipanti e non sia divulgato all’esterno. Tuttavia, proprio i regimi democratici sanciscono che la politica si deve svolgere alla luce del sole e dunque che l’opinione pubblica abbia il diritto di conoscere l’organizzazione, le finalità e le idee di un partito.
Ciò che lo stato democratico garantisce è che il dibattito interno non debba essere condizionato da interferenze di chi esercita un potere pubblico. E, in effetti, le dittature di ogni sorta hanno sempre utilizzato spie che si fingevano oppositori, per infiltrare i gruppi dissidenti, schedare gli aderenti e reprimerli.
Durante il fascismo, sempre lì occorre ritornare, fu addirittura creata una polizia politica, l’Ovra, con il compito di scoprire le “associazioni sovversive”, infiltrarsi e smantellarle. E non è improbabile che qualcosa del genere sia avvenuto illegalmente anche in periodo repubblicano, specie nell’epoca della guerra fredda e del terrorismo.
Il caso di FanPage è tuttavia del tutto diverso: nelle dittature è il potere autoritario che utilizza i propri apparati segreti per reprimere il dissenso; oggi è il giornalismo di inchiesta che disvela i segreti del potere e l’esistenza di numerosi esponenti di un partito di governo ancora attratti dalle peggiori ideologie del Novecento.
Nei manuali del buon giornalista si legge che il compito dell’informazione è principalmente quello di illuminare il volto nascosto del potere. E dunque il bravo giornalista è quello che non si accontenta della verità ufficiale, di ciò che si afferma nelle dichiarazioni pubbliche, ma vuole far conoscere le verità nascoste.
In questa prospettiva, la vicenda della cronista che si è finta militante dei giovani di Fratelli d’Italia è davvero emblematica: da quando Giorgia Meloni guida il governo, in Italia e ancor più in Europa, ci si interroga sull’effettivo ripudio dell’ideologia della sua gioventù, sulle idee e sulle reali aspirazioni dei militanti del suo partito, più in generale sull’effettiva adesione ai principi democratici di una forza politica che proviene da una tradizione del tutto opposta e che non sembra rinunciare a una certa doppiezza. E allora, è di evidente interesse pubblico un’inchiesta giornalistica che sveli una chiara contraddizione tra le dichiarazioni pubbliche della classe dirigente e gli umori di una parte almeno della base, ancora intrisa di rigurgiti fascisti e razzisti.
Ciò giustifica l’eccezione alla regola secondo cui il giornalista deve sempre rendere note identità e professione? La risposta sembra abbastanza ovvia in questo caso: se non fosse stata sotto copertura, non si fosse finta una militante, la giornalista non avrebbe certo potuto avere accesso al “dark side of the moon”, a quella realtà un po’ esoterica ove i miti della razza e l’astio nei confronti degli ebrei ancora persistono.
Non possiamo sapere se nella realizzazione del servizio tutte le molte regole dell’ordinamento, che rendono quello del giornalista un mestiere pericoloso, sono state rispettate. Ma quello di cui siamo certi è che, a differenza di quel che è stato detto, questo tipo di inchieste corrisponde alla tradizione più nobile del giornalismo e la loro sopravvivenza e diffusione è indispensabile in una società che ambisce a rimanere democratica.