Sono James e mi racconto oltre ai luoghi comuni
Suzy aveva ragione, la trascuravo, non ero adatto per il matrimonio. Abbiamo corso troppo, come del resto era nella mia indole. Sarah ha pagato un prezzo ancora più alto, entrare nella mia vita non valeva il biglietto, specie allora. Per nostra grande fortuna sono nati Tom e Freddie, il vero tesoro, l’eredità che offre un senso all’azzardo. Helen ha perso tutto, perché aveva scommesso su di me, su ciò che potevo essere davvero. E che ero diventato, ma troppo tardi, appena prima dell’addio.
Queste sono state le mie donne, insieme a Ping, compagna della mia gioventù scapestrata, e ovviamente a Jane, che ha condiviso alcuni dei miei anni peggiori. Le tante altre solo avventure, giochi frementi tra il buio della notte e le tenebre che accompagnavano i miei pensieri, nulla a cui dare troppa importanza, niente a cui attribuire il senso della mia esistenza. Eppure… Quanti sono a ricordarmi come un campione e quanti come un libertino?
La risposta è semplice e banale, nemmeno deve essere riportata. Io ero l’icona rock, la quintessenza dei favolosi anni settanta, il prototipo banalizzato del playboy che miete conquiste. Invece, a trentuno anni dalla mia scomparsa, ci tengo a ribadire che sono stato altro, ma soprattutto un pilota. Sissignori, ho amato guidare più di ogni altra cosa, anche se non avevo la metodica dedizione di Niki, la meticolosa razionalità di Jackie, o il demone del talento di Ronnie.
James Hunt e l’amico-nemico Niki Lauda
Alle volte mi capita di guardarmi allo specchio, anche da quassù. Il mio amico Niki se la ride, mi fa notare che tutto sommato non sembro così giovane, che i miei lineamenti sono invecchiati anzitempo. “Meglio non essere stati troppo belli, l’età così diventa più generosa. E dove non arriva il tempo ci pensa il fuoco: spiana le rughe.” Il buon Lauda è così, cinico e caustico anche verso se stesso, anche nell’aldilà.
Tuttavia ha ragione da vendere, troppi eccessi nella mia vita, troppo andare oltre, ma per me era l’unico modo di esistere. Non concepivo altro che non fosse adrenalina forsennata, mi sono sempre fatto guidare dall’estremo. Non che non avessi paura o timore: a dispetto di quanto si dice in giro io alla morte ci pensavo eccome, perché purtroppo l’ho incontrata tante volte nel corso della mia carriera. Sarebbe stato stupido e oltremodo presuntuoso non parlarle a tu per tu, a cuore aperto, come si fa nel corso di una preghiera.
Ma le corse erano qualcosa di unico, qualcosa a cui non potevo rinunciare. La testardaggine che mi ha portato a voler correre a bordo di una Mini arrangiata alla meglio, equipaggiata alla peggio, è qualcosa che non mi ha mai abbandonato nel corso di tutta la carriera. Ed è stata un arma potente, specie nei momenti peggiori. Ricordo ancora la rigidità dei pavimenti sui quali dormivo, quando non avevo denaro a sufficienza per pagarmi un alloggio decente, durante le mie prime trasferte nelle formule minori.
E ricordo soprattutto il senso di smarrimento e di delusione quando Lord Hesketh ci comunicò che non avremmo potuto più competere in F1. Non lo davo a vedere, ma è stato come un pugno sferrato nello stomaco, di quelli che ti fanno sentire il sapore della bile per giorni e giorni e cancellano la squisitezza di aragoste e champagne. Mi sono sentito appeso a un filo e per nulla metaforicamente, poiché per giorni ho aspettato le chiamate dei vari team. Stazionavo accanto all’apparecchio, sigaretta alla mano, torturando la treccia del telefono nella speranza che, torta e ritorta, potesse arrendersi e portarmi il suono e la voce in cui confidavo.
Devo ringraziare Emerson, la sua incomprensibile scelta, e Wilson che lo ha convinto. Non fosse stato per loro, davvero avrebbero ragione coloro che mi identificano solo in una delle tante icone degli anni ribelli. Avevo mostrato cose buone, non ero più il terribile e catastrofico “Hunt The Shunt“, la mia vittoria a Zandvoort conservava un certo sapore di leggenda, ma convengo che fosse ancora troppo poco per consegnarmi agli annali come un campione di F1. Ed era quello a cui ambivo.
Niki aveva già conquistato il suo primo titolo, io già rischiavo di essere fuori dai giochi. Infine la chiamata della McLaren, quasi avrei pensato a uno scherzo di cattivo gusto. Ma era tutto vero e su quella vettura ho iniziato a vincere. Non serve certo che stia a ricordarvi ciò che è accaduto nel 1976, lo sapete a memoria, complice un bel film, romanzato ed edulcorato quanto basta a farne una pellicola di successo. Io ancora gusto ogni attimo di quella memorabile stagione che ha dato un senso al mio essere pilota.
Dopo sono arrivati tempi difficili, tensioni, estensioni di me alle quali non volevo credere, ma con le quali ho dovuto convivere. Qualcosa si era rotto ed è difficile ammetterlo, anche da questa postazione privilegiata, dall’alto che governa il tutto. Ero smarrito, credo, o forse, semplicemente, non mi ero ancora trovato del tutto. Il problema principale è che non mi bastavano più le lusinghe della velocità, l’ebbrezza del rischio, il seducente richiamo dei corpi femminili. Era tutto già noto, tristemente abusato, noiosamente conosciuto.
James Hunt
Ho toccato il fondo in molti modi, non c’è mai un’unica via per raggiungere gli abissi. Ho rinnegato la mia passione, rinunciato alla mia carriera, tradito la fiducia e le promesse che avevo fatto a mia moglie e ai miei figli. Ma soprattutto ho abbandonato me stesso, lasciandomi andare alla deriva, senza aspettative, senza prospettive. Per qualcuno potevo ancora rappresentare un mito ma per me stesso ero solo un’ombra.
Per fortuna la vita sa regalarci tanti riscatti. In qualche modo è stata clemente con me, me ne rendo conto. Ero diventato un campione e una star, cose che non capitano proprio a chiunque, ma come un idiota avevo sprecato tutto, dunque non mi aspettavo un’altra occasione. Tuttavia mi è stata data la possibilità di voltare pagina, di invertire la rotta, di trovare una guida grazie alla quale il viaggio sarebbe stato più semplice.
Ho incontrato Helen e da allora niente è stato più lo stesso. Mi sono ritrovato, riscoperto, riconosciuto. In ciò che avrei dovuto essere molto tempo prima. Ho riallacciato il rapporto con i miei figli, accettando finalmente il ruolo di padre, ho riattaccato i miei cocci rotti, ammettendo fino in fondo ciò che ero. Un uomo, non un super eroe, non il pilota eccentrico e gaudente che aveva sempre bisogno di farsi notare. Ero finalmente James e questo mi bastava.
Purtroppo sono dovuto andarmene proprio sul più bello, quando avevo fatto pace con me stesso. Il mio cuore mi ha tradito, il complice di tante emozioni mi ha abbandonato, mentre finalmente iniziavo a riconoscerlo come qualcosa di più importante rispetto a un semplice organo. Ma va bene così, gli sono ugualmente grato.
Chiedo scusa a chi di voi mi leggerà oggi e forse si aspettava un racconto audace, la testimonianza di notti di fuoco, l’apologia dei tanti pugni che ho sferrato. Queste cose hanno fatto parte di James, ma non sono l’unico modo per raccontarlo. Del resto ho avuto abbastanza tempo per riflettere in questi anni, potrei essere diventato un saggio.
Guarda là, c’è ancora Niki che se la ride sotto al cappellino, proprio non crede al fatto che sia diventato un uomo maturo. “James, con le donne non c’è gara, ma se provassimo finalmente a sfidarci al Fuji? Posso mettere una buona parola con qualcuno per ricreare le condizioni di quel giorno.”
Non serve neppure l’assenso, infilo il mio casco nero, le tre righe rosse, blu e giallo sembrano annunciare un arcobaleno. Le monoposto sono già sulla griglia di partenza, il vulcano è nascosto dalle nubi. Io sono ancora un campione ed è l’ora di dimostrarlo, adesso che anche Niki se la sente. Le auto partono, accelerano, inizia la sfida, finalmente eterna.
Crediti foto: F1