Viaggio nel ghetto dei braccianti. C'è un racket anche per l’acqua calda

viaggio nel ghetto dei braccianti. c'è un racket anche per l’acqua calda

Viaggio nel ghetto dei braccianti. C’è un racket anche per l’acqua calda

Dopo cinque anni i braccianti immigrati di San Ferdinando stanno peggio. Molto peggio. Cinque anni fa, il 6 marzo 2019, cominciava lo sgombero e poi l’abbattimento dell’enorme e indegna baraccopoli.

Qui il ministero dell’Interno aveva realizzato una tendopoli per ospitare almeno una parte degli immigrati. Era il gennaio 2010 e i lavoratori africani avevano dato vita, nella vicina Rosarno, a una protesta dura contro le violenze e lo sfruttamento della ‘ndrangheta e di imprenditori collusi. Vivevano, sopravvivevano, ammassati in impianti industriali abbandonati come l’ex Opera Sila e la Rognetta. Dopo la rivolta si realizzarono un campo container a Rosarno e una tendopoli a San Ferdinando, nell’area di sviluppo industriale.

Il campo container è stato smantellato lo scorso 17 aprile e i circa cento ospiti trasferiti nel “villaggio della solidarietà”, costruito da quasi 15 anni e mai utilizzato. La tendopoli di San Ferdinando, non gestita, abbandonata a se stessa, si è trasformata in un’indegna baraccopoli, un enorme ghetto. Fino a 5 anni fa, quando parte degli immigrati erano stati trasferiti in una nuova tendopoli, a 200 metri di distanza. Pulita, ordinata, con acqua, corrente elettrica, area cucina, moschea, controlli all’ingresso persino con “badge” personali. Dopo cinque anni tutto è stato stravolto. E la tendopoli che doveva sostituire la baraccopoli è diventata una nuova baraccopoli. L’abbiamo visitata accompagnati da Bartolo Mercuri, “papà Africa” lo chiamano gli immigrati, nostra guida da tanti anni nel mondo degli sfruttati “invisibili”.

Lo raggiungiamo a Maropati (Reggio Calabria), nella sede dell’associazione “Il Cenacolo” di cui è presidente. Sta scaricando, con alcuni volontari, un camioncino pieno di ogni “ben di Dio”, frutto della raccolta tra negozi, supermercati e cittadini. «È la Provvidenza che ci aiuta e ci permette di aiutare 1.700 famiglie italiane e 3mila immigrati». Non solo immigrati, quindi, anzi sette di loro ora fanno i volontari. «I poveri aiutano i poveri». «Bartolo mi ha aiutato e io ora aiuto gli altri».

Saliamo su un furgone, dono di una famiglia di Taranto, stracarico di 400 polli, 250 pacchi di alimenti, 250 uova sode. Direzione San Ferdinando. Bartolo può entrare senza problemi, lo conoscono bene, ha ottimi rapporti coi due imam. Altri, invece, non riescono ad entrare. Anche perché da mesi è scomparsa anche la sorveglianza delle forze dell’ordine. Un tempo c’erano sempre una o due auto dei carabinieri o della polizia. Ora nulla. E non c’è più neanche il camion dei vigili del fuoco pronto a intervenire in caso di incendio. Nel passato ce ne sono stati molti e con molti morti. E ora con centinaia di baracche di plastica e cartone, cavi elettrici volanti, stufette e bracieri, il rischio è ancora più alto.

Mentre ci avviciniamo all’ingresso incrociamo un ragazzo che barcolla. «Lo conosco – ci dice Bartolo –, è fuori di testa. I malati di mente sono in aumento tra gli immigrati e sono emarginati dai loro stessi compagni. Nella tendopoli li hanno messi tutti in una zona, la più degradata. E a loro non pensa nessuno». Non Bartolo, però, che si ferma davanti al ragazzo. «Vuoi un pollo? Vuoi qualcosa da mangiare?». Il ragazzo dice di “no” con la testa, ma sembra pensare ad altro. Poi si allontana e va a frugare dentro a un cassonetto dei rifiuti. Una scena inaccettabile.

Entriamo nella tendopoli/baraccopoli. I braccianti immigrati riconoscono subito Bartolo. «Ciao papà Africa». E parte il “tam tam”. A decine accorrono, circondando il furgone. Ma per distribuire aspettiamo uno degli imam, Gassam, senegalese, in Italia da 10 anni. È l’autorità riconosciuta da tutti, in realtà l’unica presente. Perché qui ormai tutto è in abbandono. Dietro a noi i dieci container con bagni e docce, anzi quello che ne resta. Tutti rotti e nessuno interviene, uno scaricabarile tra istituzioni. Così per farsi una doccia dopo una giornata di lavoro sui campi è tornato il “mercato” dell’acqua calda, barili scaldati su fuoco a legna. A pagamento, 50 centesimi a doccia. Come nella vecchia baraccopoli. Continua la fila per ritirare i polli e le buste di cibo di Bartolo. Non c’è ressa. Diamo una mano nella consegna e scambiamo qualche informazione. Così scopriamo che gli immigrati presenti non sono 200, come ci era stato detto, ma molti di più, almeno il doppio. Sono ben visibili girando tra le baracche che ormai occupano tutti gli spazi liberi, anche le vie di fuga, rendendo la situazione ad alto rischio. Pochi giorni fa Joseph, del Sudan, da 13 anni in Italia, maneggiando dei cavi elettrici ha provocato una fiammata che gli ha ustionato parte del volto. Per fortuna non ha preso fuoco la baracca, altrimenti sarebbe stato un disastro. Ora ha ripreso il lavoro, prepara in serra piantine di pomodoro e peperoncino da trapiantare poi in campo aperto. Lavoro molto diffuso ma anche a rischio. Molti fanno vedere a Bartolo mani e braccia colpite da malattie della pelle, forse per l’esposizione ai pesticidi molto utilizzati, e non sempre rispettando le regole, nelle colture in serra.

Ma c’è chi sta peggio. Seguiamo Bartolo. Entriamo in una baracca costruita con plastica e coperte: è quasi buio, non si vede nulla. «Douale ci sei?». «Sono qui». La risposta arriva da sotto una coperta. Il ragazzo gambiano è steso su un materasso messo per terra. Sta male. Febbre, mal di schiena. Non sa a chi rivolgersi. Bartolo telefona a un amico medico e fissa un appuntamento urgente. Ovviamente lo porterà lui. Mentre continua la distribuzione degli alimenti, ci inoltriamo nel ghetto del ghetto, dove vivono i “matti” della baraccopoli. Qui sono solo baracche. Per gli ultimi degli ultimi niente tende. E fin quando non li ha convinti Bartolo non arrivavano neanche gli alimenti. Sali, 35 anni del Mali, è in Italia da 16. Nella sua baracca vivono in dieci. «Lavori?». «No, ho sempre mal di testa». Altri girano barcollando. Ci chiedono soldi. «No, perché poi bevi». Davanti a una baracca un giovane sta già cucinando, su un fuoco di legna, uno dei polli appena ritirati. Sorride soddisfatto. Anche noi. Torniamo al furgone, ormai svuotato. Ma ci sono altre richieste: scarpe, medicine, prodotti per la pulizia e un aiuto economico per andare a trovare la famiglia in Africa. Per tutti ci sarà una risposta positiva. «Ci pensa la Provvidenza, e tanti amici» ripete Bartolo. Ci allontaniamo e torna un velo di tristezza. «Queste persone sono la carne ferita di Gesù». Fuori dalla tendopoli/baraccopoli incontriamo di nuovo il ragazzo che avevamo incrociato all’inizio. Non è venuto a prendere nessun alimento, è seduto per terra, sguardo assente. Ma ad essere assenti, colpevolmente assenti, qui sono davvero tanti. Troppi.

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