Gobber: «L'Italia dei dialetti, ricchezza da tutelare»

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Gobber: «L’Italia dei dialetti, ricchezza da tutelare»

L’Italia è la terra dei cento campanili e di quasi altrettanti dialetti: l’Unesco ne ha riconosciuti trentuno con il rango di “lingue regionali” ma, nella realtà, lungo la Penisola e nelle isole se ne parlano decine e decine di più, per via di antichi e innumerevoli influssi di matrice greca, germanica, araba o d’oltralpe che si sono innestati nello sviluppo dell’antenato latino. Nessun altro Paese in Europa può vantare così tanti e variegati dialetti come il nostro. Si tratta di “parlate”, o vernacoli, che si distinguono talvolta da un paese all’altro della medesima provincia e persino tra i villaggi di una stessa vallata per caratteristiche fonetiche, grammaticali, culturali, “pragmatiche”. « Ma spesso si trovano dialetti diversi anche da strada a strada, da famiglia a famiglia: un patrimonio culturale a cui corrispondono minoranze linguistiche, una tradizione che va salvaguardata come hanno già fatto trent’anni fa, approvando specifiche leggi, il Benelux con i suoi cinque idiomi e la Francia col bretone, l’alsaziano, il corso, il brigasco (lingua locale della Valle della Loira) e, nel 2019, il “patois”» sottolinea Giovanni Gobber, preside della facoltà di Scienze linguistiche e letterature straniere dell’Università Cattolica di Milano.

Servono, dunque, una precisa e attuale mappatura dei dialetti presenti sul territorio nazionale e, dopo una necessaria “certificazione”, norme “ad hoc” che li proteggano da un’estinzione altrimenti certa perché le nuove generazioni, col trascorrere degli anni, smettono di parlare la lingua dei vecchi, soprattutto quando si staccano dai luoghi d’origine. La questione è complessa perché implica la permanenza di comunità, piccoli agglomerati rurali o di gruppi etnici, e la loro integrazione con il resto dell’organizzazione sociale. Il che vuol dire più servizi e condizioni di vita adeguate nelle zone a bassa densità di popolazione perché non siano abbandonate a se stesse, ma significa anche iniziative di divulgazione a carattere culturale e, più specificamente, letterario, che valorizzino luoghi, mestieri, usi e costumi locali. Una consapevolezza e un impegno, anche finanziario, che riguardano soprattutto gli enti locali, i Comuni, i comprensori e le Comunità montane. Ma una tale politica, in tempi di regionalismo differenziato, non dovrebbe trovare ostacoli.

In Italia sono sei i principali “ceppi” linguistici da cui derivano più specifici dialetti: la lingua napoletana (che dà origine al campano, al pugliese, al lucano, al cosentino e all’abruzzese), quella veneta (dal quale scaturiscono veneziano, bellunese e trentino), le lingue gallo-Italiche (che comprendono ligure nelle sue varie sfumature, piemontese, lombardo, emiliano e romagnolo), il gruppo toscano-corso (con ben nove “parlate” provinciali, dal fiorentino all’apuano e, nell’“isola dei quattro mori”, gallurese e sassarese), la lingua sarda (che comprende campidano, nuorese e logudorese) e la siciliana (con siculo, salentino e calabrese). E non vanno dimenticati le lingue “retoromanze” (da cui derivano ladino e friulano) e i dialetti mediani come il marchigiano centrale, l’umbro e il laziale che presentano termini e inflessioni comuni.

Da tutti questi si sviluppa una miriade di dialetti “secondari” con pronunce diverse delle medesime parole o piccolissime differenze della grammatica e/o del lessico. Elementi che si evolvono col tempo e con le usanze di chi li parla nella comunicazione quotidiana. Tuttavia, in Italia, non esistono dialetti “romanzi”, sostiene Gobber: « Al nord vi sono due gruppi di parlate germaniche: uno è l’alemanno dei walser di Gressoney, Alagna, Val Formazza – e furono portate da comunità giunte dal Vallese (erano svizzeri che emigravano…); l’altro è il bavarese delle comunità insediate in territori veneti (altipiano di Asiago, Monti Lessini), trentini (come Luserna, Lavarone, val dei Mòcheni), friulani (Sappada, Sauris, Timau, val Canale); nel Tirolo esistono le parlate bavaresi che sono in continuità territoriale con quelle al di là delle Alpi, nel Tirolo austriaco. Abbiamo poi lo sloveno di Trieste, i dialetti sloveni delle valli friulane di confine (caso limite è la Val Canale: vi convivono parlate germaniche, slave, romanze) e la piccola, ma vitale comunità slava del Molise. Nel Sud vi sono varietà di albanese (“arbëreshe”, soprattutto in Calabria e Sicilia) e di greco. A questi va aggiunto il gruppo indoario rappresentato dal romanì, cioè la parlata dei Rom e dei Sinti».

Ma la materia è assai intricata. «Sono state le migrazioni interne a cambiare l’assetto socio-linguistico del Paese» spiega Gobber. E va ricordato che il fascismo arrivò a sanzionare i dialetti, allora in uso quasi esclusivo per i due terzi della popolazione, allo scopo di difendere la lingua nazionale, e con la riforma della scuola promossa da Giovanni Gentile cercò di sradicarli. Senza riuscirci del tutto, però. Negli anni Sessanta, con l’avvento della televisione, fu il “maestro d’Italia” Alberto Manzi nella trasmissione Non è mai troppo tardi, a dare un contributo notevole alla alfabetizzazione degli italiani adulti affermando la lingua nazionale parlata e scritta.

Eppure, i dialetti, benché rarefatti nell’uso, sono rimasti e anche radicati. Secondo un’indagine Istat del 2017 (l’ultimo studio statistico di riferimento), però, solo il 14% della popolazione italiana parla il dialetto come lingua principale in famiglia: e si tratta prevalentemente di anziani (il 75% degli “over 75”) mentre i giovani comunicano quasi soltanto in italiano. E di sicuro in otto anni, con la rapida diffusione della tecnologia, a tutt’oggi le percentuali si saranno di sicuro ridotte. Ma per discernere la materia bisogna conoscere innanzitutto la differenza tra dialetto e lingua. «Una lingua è un dialetto con un parlamento, un esercito, una moneta» dice Gobber ricordando la definizione dello studioso svizzero Georges Lüdi.

Insomma, l’italiano è l’italiano, e… non si discute, anche se il dialetto può trovare un’ulteriore dignità in forme letterarie e poetiche come è stato, per esempio, il milanese con le opere di Carlo Porta, il lucano con Albino Pierro, il trentino con Lionello Groff. « Possiamo dire che una lingua è anche un dialetto che ha fatto carriera » aggiunge il professore citando il socio-linguista Gaetano Berruto. Infatti, l’italiano deriva dal toscano, la parlata di Dante.« Eppure, il fiorentino non si è imposto con eserciti o parlamenti, bensì col prestigio culturale: nel Medioevo era anche la lingua della finanza, oltre che della grande letteratura, delle arti. Inoltre, il toscano risultava comprensibile a tutti, anche fuori da quel territorio mentre altri dialetti come il milanese erano meno accessibili». La lingua è, dunque, «un dialetto elaborato e possiede tutti gli strumenti necessari per svolgere ogni funzione sociale di prestigio – conclude Gobber – mentre un dialetto è una lingua che non ha voglia di lasciarsi elaborare troppo».

Da “fiòla” a “tosa” e “madele”: le voci delle Alpi vanno in digitale con il progetto AlpiLink

Friulano, veneto, trentino, ladino, lombardo, piemontese, francoprovenzale, occitano, walser, cimbro, mòcheno, sappadino, saurano, timavese, tirolese, resiano, tedesco e sloveno della Val Canale: sono le varietà linguistiche, germaniche, romanze e slave comprese nell’audio mappa interattiva dei dialetti del Nord Italia realizzata nel progetto “AlpiLink-Lingue Alpine in contatto”. Si tratta di 201mila file in voce e suoni registrati in una piattaforma digitale da 1.731 persone di ogni età ed estrazione sociale che vivono nelle sei regioni della dorsale montana, dal Piemonte al Friuli Venezia-Giulia: la più grande banca dati dedicata allo studio, alla documentazione e alla ricerca sul multilinguismo, un “corpus” di preziose informazioni accessibile a tutti e utile anche a scopo didattico e divulgativo per avvicinare alla conoscenza di un patrimonio che rischia altrimenti di perdersi.

L’iniziativa è stata sviluppata in rete dalle università di Verona, Trento, Bolzano, Torino e Valle d’Aosta ed è finanziata dal Miur. Il percorso, che coinvolge anche scuole, comunità ed enti locali, si concluderà nel 2025. Tutte le persone che parlano un dialetto possono infatti ancora contribuire direttamente alla ricerca attraverso il sito alpilink.it compilando in pochi minuti l’audio-sondaggio in cui viene proposto di parlare il proprio dialetto o la propria lingua per descrivere cosa accade in una scena o per tradurre frasi o parole indicate.

Ad esempio: “come si dice ragazza nel tuo paese?” Si scopre così che il termine tosa è diffusissimo nel Padovano mentre nel Trevigiano e nel Vicentino si usa putela mentre nel Veneziano domina fiola. Ma nella stessa macro-area veneta troviamo pure ragasa, mula (soprattutto nel Bellunese) e pizzola (di origine ladina). Interessante anche l’analisi dei diminutivi, come tosata, toseta, tosatela, tosatiela per tosa, molto utilizzati in tutte le sacche geografiche della regione e buteleta che ritroviamo nel Veronese. Per quanto riguarda le lingue minoritarie tedesche, invece, in Alto Adige l’espressione più diffusa risulta madl con la sua variante madele. Inoltre, si ritrova con una certa frequenza, specie a Bolzano e nelle aree più orientali della provincia sud-tirolese, anche gitsche. In alcune isole linguistiche tedesche del Trentino, dell’Alto Vicentino e del Friuli ricorre invece il termine diern ripreso dal tedesco medievale.

Tra le specificità linguistiche emerse dalle testimonianze vocali raccolte, ci sono anche il saurano, che risulta parlato da 200 dei circa 400 attuali residenti nel comune di Sauris, in provincia di Udine, e il mòcheno, in uso soltanto in tre centri del Trentino, Palù del Fersina, Fierozzo e Frassilongo. «La possibilità di studiare le lingue a partire dall’ascolto e dalla comparazione degli audio anziché su trascrizioni – spiega Stefan Rabanus, professore ordinario di linguistica tedesca all’università di Verona e coordinatore del progetto – sta aprendo prospettive importanti e ci ha già permesso di fare passi avanti significativi sul fronte della ricerca. Questo progetto consente inoltre di valorizzare i dialetti e le varietà linguistiche locali – conclude Rabanus – come parte del nostro patrimonio culturale, attraverso la raccolta, la conservazione e la messa a disposizione di tutti di fonti orali preziosissime che altrimenti rischierebbero di andare perse».

Finora il progetto di ricerca che ha condotto all’audio-mappa digitale ha visto la partecipazione anche di 23 istituti scolastici per un totale di 559 studenti delle secondarie di secondo grado e 79 insegnanti del Nord Italia. Nel corso dell’anno vengono proposti seminari, workshop ed eventi pubblici che, nel Paese più meticcio d’Europa, hanno per tema i dialetti e il multilinguismo.

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