Racconto russo. Cosa la guerra ha fatto perdere e guadagnare al popolo (di S. Černyšov)

racconto russo. cosa la guerra ha fatto perdere e guadagnare al popolo (di s. černyšov)

Racconto russo. Cosa la guerra ha fatto perdere e guadagnare al popolo (di S. Černyšov)

(di Sergej Černyšov. Traduzione di Elisabetta Paoletti e Martina Bassanelli)

I miei genitori vivono da vent’anni in un “quartiere di case individuali” di una grande città. Prima di scrivere questo articolo, ho pensato per giorni a come tradurre questo termine in altre lingue (inclusa quella di Mosca). Ho capito che non si può. Non è formato da “costruzioni individuali a uso abitativo”, come scrive Wikipedia, ma rappresenta un’iniezione di vita rurale nel tessuto delle grandi città. Non ci sono strade asfaltate, né fognature (anche se quasi tutti hanno i servizi igienici), il telefono è comparso circa quindici anni fa, così come il gas. In inverno, chi ha il gas non deve andare nella legnaia con il secchio a prendere il carbone due volte al giorno (o tre) e accendere la stufa. Il gas è già molto, non tutti ce l’hanno. Una decina di anni fa, accanto agli orti, sono spuntate le prime macchine di marca straniera. Negli ultimi cinque anni non è cambiato nulla.

Quest’estate sono andato a prendere mio figlio che aveva trascorso le vacanze dai miei. “Non arrivare dopo le dieci del mattino”, mi ha avvisato mia mamma. E io sono arrivato proprio alle dieci. Alle undici, nella via parallela del loro settore privato, ci sarebbe stato un funerale. Portavano il nipote del “capo” della strada dei miei genitori. Il “capo” è una persona molto rispettata, più o meno come un capoclasse, però riferito a una via. Perciò suo nipote, un “caduto” dell’Operazione Militare Speciale, doveva essere sepolto come si deve, bisognava fare presenza e onorarne la memoria. L’avevano mobilitato in primavera, era stato in guerra per sei mesi, poi era tornato a casa in licenza, quindi era partito di nuovo e già il primo giorno si è ritrovato sotto il fuoco nemico. La seconda volta era tornato a casa in una bara di zinco, persino la finestrella era coperta di vernice. Ecco perché dovevo andare a prendere mio figlio alle dieci: la mamma sapeva che non avrei approvato la sua partecipazione a questi funerali in pompa magna.

Sempre nella via dei miei genitori, adesso vive a casa dei suoi un “eroe di guerra”, al contempo soldato della Wagner e ladro incallito. Da che mi ricordo, era sempre in prigione per piccoli furti, o per atti vandalici. Usciva per un paio di mesi, si sbronzava, rubava e finiva di nuovo dietro le sbarre. Se ultimamente a qualcuno spariva qualcosa dall’orto o dalla casa, si pensava subito a lui. Ora ha una medaglia e una macchina nuova. Ha anche portato i genitori al mare. Pare piangessero, tanto erano orgogliosi del figlio.

Dall’altra parte della strada, nella casa accanto, vive una donna che faceva la bigliettaia sui tram, e forse per questo tira giù una parolaccia dietro l’altra. Racconta da un anno e mezzo che suo genero ripete sempre che si arruolerà da volontario, perché i debiti non si ripagano da soli. Ed è proprio così: una casa più in là, un altro vicino indebitato si è messo a bere e il suo cuore non ha retto. Alle porte della primavera anche al suo funerale è accorso tutto il vicinato.

Ho vissuto in quella via per dieci anni. I miei genitori ci vivono ancora, perché lì hanno una banja, il garage e l’orto – non come “in quei vostri appartamenti, dove siete ammucchiati uno sull’altro”. E per quanto riguarda i veterani della Wagner tra i vicini, dov’è che non li trovi, ora?

Ogni volta che sento gli “esperti” spiegare dai loro accoglienti studi in Olanda o Israele quanto il regime putiniano opprima il popolo che ha perso tutto per la guerra e le sanzioni, penso a quella via. Ci penso anche quando vedo su Youtube l’ennesimo dibattito tra emigranti liberali. Sono loro a sostenere che per le sanzioni pesantissime il popolo capirà che il “regime di Putin” gli ha portato via tutto. Lo capirà e, si spera, insorgerà. O forse no, ma almeno lo saboterà, quel regime. O qualcosa del genere.

Poco tempo fa, la famosa psicologa Ljudmila Petranovskaja ha provato a elencare in un post tutto ciò che il popolo ha perso, per dimostrarci che “non tutti i russi traggono beneficio da questa guerra”. Nella sua lista comparivano diversi punti: il crollo del rublo e la svalutazione degli immobili in termini di “valuta pregiata”, la “chiusura del mondo” ai turisti, la fine delle prospettive di studio all’estero per i giovani, la stretta sui diritti civili e le libertà, il degrado dell’istruzione, della cultura, lo “smembramento delle famiglie dovuto all’emigrazione” e qualcos’altro ancora. Dopo aver letto questa lista, ho ringraziato per l’ennesima volta il destino di non avermi fatto nascere a Mosca e quindi di non aver perso il contatto con la realtà.

Se infatti si considerano come “popolo russo” i due terzi della popolazione, allora il “popolo russo” non ha perso niente di tutto questo. Perché già prima non ce l’aveva. La gente comune, i dollari li ha tenuti in mano per l’ultima volta nel ‘97, come una curiosità e niente di più. A teatro non è mai andata e non si è neppure accorta che i migliori registi hanno lasciato la Russia piantandolo in asso, il loro popolo. I bambini frequentano la stessa scuola dove tempo addietro sono stati i loro padri; forse è la stessa anche l’insegnante, ormai sulla settantina. Alla gente comune non passa neanche per la testa che si possa insegnare ai bambini senza urlare e che sia permesso calpestare i prati delle scuole. Infine, se la gente ha visto famiglie “spezzate”, era solo a causa del carcere, della mobilitazione e del servizio militare. Nessuno che venga dal popolo è scappato in Georgia o in Kazakistan: in quelle famiglie non c’è una persona che abbia mai oltrepassato sia pure i confini della propria città.

I prezzi dei negozi sono aumentati, ma tanto la gente non faceva affidamento sul cibo che si può comprare. Nello scantinato ha patate e barattoli di sottaceti per tutto l’inverno. In qualche modo si sopravvive.

Insomma, la gente comune non ha perso nulla. Non ha molto da perdere, in generale.

Ma cosa ha guadagnato? Ecco: tanto, davvero tanto. Soldi, innanzitutto. Un sacco di soldi. Già, decine di migliaia di soldati russi non sono tornati, ma centinaia di migliaia sì! Sono tornati con milioni di rubli: una cifra che prima non se la potevano sognare. Nella città natale di mia moglie (non grande come la nostra, ma molto più industriale) un tizio è tornato con tre milioni di rubli [circa 30 000 euro], che lui e il suo gruppetto di amici hanno sperperato in dieci giorni.

Il gruppetto ha fatto fuori trecentomila rubli al giorno, tra prostitute e alcol a volontà.

Questa sì che è vita! Chi ritorna dal fronte e ha famiglia va al mare, si compra la casa e cambia macchina.

Poi c’è la sensazione di partecipare a qualcosa di grande. I nostri nonni hanno sconfitto Hitler; allo stesso modo noi sconfiggiamo il nazismo (o quello che è) in Ucraina. E allo stesso tempo faremo a pezzi i gay, gli ebrei, l’intero blocco occidentale, i massoni… tutti quanti, insomma. La gente di mezz’età è contenta di veder tornare i Pionieri, l’addestramento militare nelle scuole, le divise scolastiche e in generale tutto ciò che gli ricorda la giovinezza. Finalmente! Perché i giovani di oggi non hanno più il minimo senso della disciplina. E tutti questi “progressi” sono stati ottenuti senza il minimo sforzo, anzi, senza nemmeno alzarsi dal divano.

E come si vorrebbe far cambiare idea a chi si è arricchito con la guerra, e ora si sente una specie di reuccio orientale? Con i video sui palazzi che i dipendenti statali si sono costruiti a forza di rubare? La gente sa da tempo, dagli anni ’90, che i funzionari rubano. Non è una novità. Serve a qualcosa dare la colpa dei crimini del regime al popolo (complice perché non ha lasciato il paese)? Servono a convincere qualcuno le interviste sulla democrazia e sui diritti umani? O le tragiche vicende giudiziarie di Berkovič o Mel’kon’janc? E chi sarebbero? Non se ne parla affatto in TV o su Internet (per esempio, sul sito web della Komsomol’skaja Pravda).

Distribuire soldi che la gente comune non avrebbe mai potuto guadagnare, neanche in decenni di lavoro, dandole al contempo la sensazione di partecipare a qualcosa di grande, è una miscela esplosiva. Se non ne teniamo conto non smetterà mai di stupirci il fatto che alle scorse elezioni a votare per i governatori nominati dall’alto e per il “partito dirigente” non siano state le grandi città ma soprattutto le zone rurali, benché proprio queste abbiano risentito di più della mobilitazione. È questa miscela esplosiva che spinge le anziane, che per andare al seggio mettono un vestito comprato vent’anni fa, a votare per il governo. Votano convinte per il potere che a breve riuscirà a costruire una grande nazione; naturalmente, alla faccia dei propri nemici. Proprio questa miscela crea una totale incomprensione tra il minuscolo gruppo di chi ha davvero perso tutto a causa della guerra e la stragrande maggioranza della gente, che non ha perso nulla ma ha guadagnato tutto.

Nelle nostre conversazioni intellettuali, mentre speriamo che l’incubo finisca presto, ci sforziamo anche di ignorare un’altra cosa. Le centinaia di migliaia di uomini e donne che hanno già vissuto questa guerra e la cosiddetta “ricostruzione dei nuovi territori” hanno milioni di figli, convinti che le azioni dei loro padri e madri siano eroiche. Ci credono fermamente, basandosi sul fatto che i loro genitori non possono essere mostri. Questi milioni di bambini si mettono al collo il fazzoletto nazionale per il primo settembre, guardano tutti gli stessi programmi televisivi, ascoltano i racconti dei padri sugli “ukropy”, vanno in vacanza in Crimea (con o senza i padri) passando per una Mariupol’ dilaniata.

Se dopo la fine della guerra vogliamo cominciare a ragionare su un atto di pentimento da parte dell’intera società, dovremo aspettare che questi bambini crescano e abbiano a loro volta dei figli; a questi bambini (non ancora nati) si potrà allora dire che i loro nonni hanno commesso azioni indegne. È più semplice se si tratta dei nonni e non dei padri. In Germania, il vero pentimento, interiore e non superficiale, è iniziato negli anni ’70, proprio due generazioni dopo i nazisti.

Quindi solo verso la fine del 2040 si potrà discutere apertamente di ciò che la guerra ha davvero fatto perdere alla società russa. Almeno qualche rappresentante del popolo ascolterà sul serio. E tra l’altro, a quel punto andranno finalmente in pensione gli insegnanti che hanno iniziato a lavorare sotto Brežnev.

Nel frattempo, questo è forse il periodo migliore per il popolo russo. È vero che ogni tanto qualcuno di loro torna dalla guerra in bare di zinco. Ma almeno tutti i vicini partecipano al suo funerale; non è un bell’esempio di rinascita dei valori tradizionali?

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