Carlo Galante, l’eroe silenzioso dell’Icmesa: "Papà evitò il peggio poi volle dimenticare. Ma è giusto celebrarlo"

carlo galante, l’eroe silenzioso dell’icmesa:

Carlo Galante, l’eroe silenzioso dell’Icmesa: "Papà evitò il peggio poi volle dimenticare. Ma è giusto celebrarlo"

Seveso, 10 luglio 1976. Cade tra pochi giorni il 48esimo anniversario del disastro dell’Icmesa di Seveso, che causò la fuoriuscita e la dispersione nell’atmosfera di una nube di diossina TCDD, una sostanza artificiale estremamente tossica. Ma nella “fabbrica dei profumi“ (ufficialmente produceva prodotti aromatizzati) sarebbe potuta andare anche peggio. Era l’ora di pranzo e Carlo Galante, caporeparto e sorvegliante in Icmesa, era a casa a pranzo. Con lui c’era solo il figlio minore, Maurizio, all’epoca 15enne: Maria Grazia, parrucchiera, era al lavoro, Piergiorgio impegnato nel servizio di leva ed Elsa in viaggio di nozze. Carlo all’improvviso sentì un fischio provenire dall’impianto. Lasciati lì all’istante coltello e forchetta, corse subito in azienda, dove prese un respiratore al volo, per entrare nel cuore dell’impianto ad azionare le apparecchiateure d’acqua di raffreddamento, fermando la combustione, prima che degenerasse in esplosione e quello che è ricordato come uno dei disastri ambientali più significativi del Paese si trasformasse in una catastrofe. Un intervento tempestivo che solo un tecnico cresciuto in azienda e che ne conosceva ogni bullone poteva effettuare così, d’istinto. Alla figlia Elsa la prefetta di Monza Patrizia Palmisani ha consegnato nei giorni scorsi la medaglia d’argento al valore civile in memoria del padre.

Seveso (Monza e Brianza). 2 luglio 2024 – «Erano gli anni della paura per la salute e delle preoccupazioni per il futuro. In quel periodo, dopo il disastro, non c’era tempo né voglia di celebrazioni o ringraziamenti per papà Carlo, l’eroe dell’Icmesa passato sotto silenzio". Così Elsa Galante ricorda il padre scomparso vent’anni fa: è stata lei stessa a ritirare nei giorni scorsi in Prefettura a Monza la medaglia d’argento al valore civile alla sua memoria. Papà Carlo Galante infatti è l’operaio eroe che, entrando nella “fabbrica dei profumi“ e chiudendo un rubinetto, riuscì a impedire che lo scoppio diventasse un incendio, limitando i danni, già enormi, provocati dalla diossina.

Lei allora aveva 25 anni, cosa ricorda?

"In quei giorni ero in viaggio di nozze in Veneto. Io e mio marito Giuseppe lavoravamo entrambi all’Icmesa, io come impiegata amministrativa e Giuseppe come carrellista. Ci eravamo conosciuti in azienda. Ma quel 10 luglio non abbiamo ascoltato i telegiornali e le notizie non circolavano velocemente via internet come oggi".

Siete rimasti senza lavoro...

"Quando siamo arrivati a casa mamma e papà ci hanno dato la notizia: “È successo un grave incidente all’Icmesa, cari ragazzi, dobbiamo trovarci tutti un altro lavoro“. In raltà, dopo lo smantellamento dell’azienda e 6 mesi a casa, la vita è ripartita. Erano gli anni ‘70, l’Italia era in crescita e abbiamo trovato subito, io in una grande azienda milanese, Giuseppe sul territorio".

Suo padre ha evitato il peggio. Perché non rivendicarlo?

"In paese regnavano sgomento, rabbia e disperazione per tutti coloro che dovettero lasciare immediatamente le proprie case nella zona A, quella contaminata, senza neanche portar via un cambio d’abito. E poi gli aborti spontanei, le malattie della pelle. Anche nella zona B, quella non colpita, dove abitiamo noi, era vietato consumare frutta e verdura coltivati in loco. A cascata fu una catastrofe per tutte le piccole aziende, per paura che le radiazioni avessero contaminato tutti gli oggetti, falegnamerie e mobilifici vedevano andare a monte le commesse, così come i tappezzieri e i produttori di divani. Papà non ha mai voluto parlare di quello che era accaduto: aveva un carattere schivo, aveva agito e basta. E poi forse voleva solo dimenticare. Forse i miei figli gli hanno chiesto qualcosa, ma in generale in casa non si toccava l’argomento. Qualcuno gli chiedeva, ma lui deviava il discorso".

Suo padre conosceva bene l’azienda.

"Papà e la sua famiglia arrivavano dal Veneto, erano a Seveso dal 1948. Con il suo attestato di ginnasio, aveva cominciato a lavorare a 16 anni, quindi nel 1976 aveva maturato già una grande esperienza nel settore chimico, percorrendo tutti i passaggi di carriera in Icmesa: operaio, capo reparto, sorvegliante. Conosceva l’azienda in ogni dettaglio e tutti lo conoscevano".

Lei, da giovane donna, come ha vissuto il dramma?

"Non c’erano parole per esprimere i sentimenti, successe tutto troppo in fretta. In un attimo tutti videro la propria vita rivoluzionata. Volevamo solo dimenticare. Ricordo i controlli sanitari proseguiti per anni: esami del sangue, visite mediche, prima ogni mese, poi ogni 2-3 e 6 mesi, per 5 anni, segnati su uno speciale libretto sanitario. Dopo 48 anni, tutto è passato nell’oblio. I figli sanno poco, i nipoti non sanno quasi nulla del disastro dell’Icmesa. Passano distratti nel Bosco delle querce, tra i Comuni di Seveso e Meda, un’area protetta regionale nata sul territorio più inquinato dalla nube tossica".

Poi, dopo anni di silenzio, la vostra famiglia ha chiesto di portare questa storia fuori dall’ombra. Come mai?

"Nel 2016 ho cominciato a bussare a tutte le porte, Comune, Regione, Prefettura, e più in alto fino alla presidenza della Repubblica e al consiglio dei Ministri, perché era giusto che il gesto e la memoria di mio padre non cadessero nell’oblio. Nel 2017 ho ricevuto una chiamata da una funzionaria della Prefettura per il conferimento dell’onorificenza alla memoria. Finalmente".

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