Santopadre “Berrettini-Sinner è la ragione contro il sentimento. Mi farà battere forte il cuore"
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Si prospetta un mercoledì da leoni, a Wimbledon, per cuori puri e forti: Jannik Sinner contro Matteo Berrettini. “Avrò le pulsazioni a mille”».
Vincenzo Santopadre: da ex coach di Matteo, lei sarà spettatore d’eccezione e neutrale. Ma lo sarà davvero?
“Beh, mi farà un certo effetto. Voglio proprio vederlo, questo match. Mi solletica talmente tanto che dovrò chiedere un biglietto a qualcuno...”.
Questa non era male.
“Scherzi a parte, ho visto un po’ del match di Matteo, ma sapere che gioca contro Jannik, che mi piace molto, e non solo come tennista, mi dispiace...”.
Vogliamo lanciarci tecnicamente sul match?
“Nooo, macché, siete matti? Siamo davanti a due team seri, onesti, fatti di persone perbene. Non entro nel merito neppure sotto tortura. Consigli non ne ho e non ne do. Eppoi: cosa c’è mai da spiegare, che non sappiamo del gioco di Sinner e Berrettini?”.
Quindi vuole solo godersi il match.
“Esattamente”.
A ogni modo lei non è disoccupato.
“Quello che sto facendo, attualmente, è seguire Luca. Cioè Van Assche, il francese di Bergamo. Tifoso pazzo dell’Atalanta. lo sapevate?”.
Per la sua mamma...
“Esatto. Sono due genitori come piacciono a me, perciò ho deciso di seguirlo”.
Però di sicuro ora vede il tennis da un altro punto di vista.
“Intanto mi godo Wimbledon: il rumore delicato della palla sull’erba, un suono non replicabile. E poi ci sono i ricordi che riaffiorano forti: io che non riesco a cazzeggiare prima della finale del 2021, la volta dell’allenamento con il mio amico Pelouche, che ci mancava il quarto per il doppio...”.
Sembra un altro mondo, rispetto a oggi.
“Lo so. Oggi ho il lusso di momenti di riflessione, posso permettermi di fumare un sigaro ‘riflessivo’ ogni tanto. Quando giocavo io ci si salutava con affetto, con trasporto, col sorriso sulle labbra, con un abbraccio. Si viveva molto di più, ci si conosceva molto di più. Adesso che i team si sono allargati, ci sono giocatori che si salutano e finisce là. C’è meno storia vissuta, meno aneddoti e meno conoscenza personale”.
Molto vero. Ma torniamo a lei: quali possono essere i sentimenti di un coach che ha cresciuto un ragazzo portandolo in finale a Wimbledon e ora non lo è più?
“Io mi sto bene così. Abbiamo vissuto tante cose insieme, viaggiato tanto. Tutte esperienze che ci hanno fatto crescere. Capisco che viviamo in funzione di risultato e della realizzazione, ma per me realizzarsi è fare qualcosa che mi piace. Io sono a posto così”.
È in sana minoranza questa filosofia di vita, nel tennis e nel mondo. Lo sa questo?
“Ne sono consapevole. Eppure è proprio per questo che qualcuno, in Francia, ha suggerito il mio nome alla famiglia Van Assche. C’è ancora chi ha valori simili ai miei”.
C’è qualcosa che vuole dire a chi si avvicina al tennis, un messaggio propedeutico?
“Che il mondo giovanile, ahimè, inizia a essere inquinato, cosa che non era prima. Perché c’è il denaro. E quindi c’è corruzione morale, con gente che purtroppo non lavora per il piacere e la passione, ma solo ed esclusivamente per il guadagno economico, questo è il punto”.
Si intuisce un po’ di disincanto...
“Mah, ho vissuto anni a palla di cannone, con ritmi asfissianti e con difficoltà, ma non mi sono mai tirato indietro perché di base faccio un lavoro che mi piace. Non so quante volte è capitato che, passando da Roma, qualche amico mi abbia chiesto una lezione all’Aniene e io non ho mai detto di no, mentre avrei potuto trascorrere diversamente quel tempo. E allora, poi, mi sono chiesto: ‘perché l’ho fatto?’, ma la risposta già la conoscevo: perché mi piace, non è un lavoro”.