Perché questo vento di destra?
Perché questo vento di destra?
Perché? Perché la destra, anche nelle sue espressioni estreme, si è affermata nettamente nei più rilevanti Stati dell’Unione europea alle recenti elezioni per il Parlamento di Strasburgo? Perché ha confermato il suo risultato ieri in Francia? Perché le destre conquistano sempre maggior consenso delle classi medie spiaggiate e della working class? Le domande vengono rimosse. Sono scomode. Cercare le risposte implica mettere in discussione l’impianto ideologico e l’agenda portata avanti negli ultimi tre-quattro decenni dalle classi dirigenti delle tradizionali famiglie politiche europee, democristiane, liberali e socialiste. È indubbiamente imbarazzante. Ma necessario. Tentiamo.
Le cause dell’avanzata delle destre sono molteplici, come per ogni fenomeno complesso. Semplifichiamo. Ripropongo una linea interpretativa politicamente scorretta: il mercato unico europeo, per come è regolato e per le caratteristiche così disomogenee del terreno di gioco, colpisce le condizioni esistenziali e gli interessi economici del lavoro subordinato in tutte le sue forme -dipendente, autonomo e di micro e piccola impresa. Insomma, dietro la retorica straripante di “sociale” (“economia sociale di mercato”, “Carta dei diritti sociali”, “pilastro sociale europeo”, ecc), alimenta domande di protezione sociale e identitaria. In sintesi, in assenza di una sinistra in grado di fare le correzioni necessarie, gonfia il consenso alle destre nazionaliste e razziste.
L’insostenibilità della regolazione neo-liberista dei mercati non è più un tabù. È accettata anche dalle classi dirigenti mainstream europee quando l’oggetto dell’analisi è globale. Sul piano politico, il colpo fatale al “Washington consensus” l’ha assestato, proprio dalla capitale dei primi della classe, Jake Sullivan, il consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Joe Biden, nell’intervento alla Brookings Insitution ad Aprile 2023. A specchio, da questa parte dell’Atlantico, la Commissione europea ha definito il Carbon border adjustment mechanism (un dazio sull’import di prodotti con contenuto di CO2 superiore a livelli europei) e ha, tra resistenze delle grandi imprese europee committenti, approvato, seppur diluita, la Corporate Sustainability Due Diligence Directive (un sistema di filtri per ostacolare l’import da imprese prive di determinati standard sui diritti umani e sociali). Da ultimo, ha innalzato al 48% i dazi sull’importazione di auto elettriche dalla Cina. Tutti gli interventi sono stati, giustamente, motivati come contrasto ad una concorrenza radicalmente sleale, ossia priva del famoso level playing field.
Il punto politico è che quanto si denuncia per arrivare a correggere il mercato globale, si continua a negare nella dimensione europea, nonostante il nostro mercato unico sia altrettanto squilibrato. Viene rimosso che, nel quadro definito da Direttive come la Bolkestein e quella relativa ai “lavoratori dislocati”, le tassazioni minime vigenti in tanti Stati europei e le enormi differenze in termini di costo e condizioni del lavoro tra gli Stati della “vecchia Europa” e gli Stati entrati dopo il 2000, generano effetti analoghi ai minori standard ambientali, al maggior sfruttamento del lavoro e agli aiuti di Stato contestati a Pechino e agli altri partner commerciali extra-Ue.
In sintesi, il mercato unico europeo, proprio come i mercati globali, funziona da potente fattore di svalutazione e di precarizzazione del lavoro e delle vite. Ma, mentre la globalizzazione è da un po’ di tempo riconosciuta colpevole dell’ammutinamento delle classi medie, il mercato unico europeo viene ignorato nella sua funzione reale. Anzi, la migliore classe dirigente “riformista” continua ad esaltarne i successi. Il nostro Enrico Letta, nel Rapporto affidatogli dalla Commissione europea, scrive: “il mercato unico continua a essere una pietra angolare dell’integrazione e dei valori europei, fungendo da potente catalizzatore di crescita, prosperità e solidarietà” (pag 3). Ma per chi ha avuto successo? Per quali classi sociali? Nel suo insieme, negli ultimi 20 anni, in termini di Pil pro-capite, l’area è cresciuta metà degli Stati Uniti. Nello spacchettamento del valore medio, troviamo sorprese piuttosto amare. Per gli stati fondatori dell’Ue, il Pil pro-capite si è ridotto. Per gli Stati arrivati all’inizio del secolo, è aumentato del 30%. L’aspetto più drammatico è che, dentro ciascuno degli Stati considerati, le condizioni del lavoro si sono aggravate e la disuguaglianza è aumentata. Non sarebbe il caso di correggere qualche direttiva per “livellare il campo di gioco”, come si è iniziato a fare sul mercato globale? La concorrenza funziona, così prescrivono i manuali di economia neoclassica, quando le condizioni di gioco sono pari.
Deve essere chiaro: l'ulteriore allargamento dell'Unione e del suo mercato a Ucraina, Moldavia, Balcani, ecc gonfierà ancora di più le destre. Un’Ue a 36 Stati, segnati sul piano della politica internazionale da interessi strategici divergenti, precluderebbe la possibilità di maturare una minima soggettività e, sul piano economico, considerato l’impianto liberista dei Trattati e delle direttive-guida, aggraverebbe il dumping fiscale e sociale (i 9 candidati all'ingresso nell'Ue sono caratterizzati da salari medi di circa 300 euro al mese). La solidarietà all’Ucraina si dovrebbe fare attraverso un ‘Piano Marshall’ finanziato dalla Banca Europea per gli Investimenti e dalla Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo. L’obiettivo geo-politico si potrebbe raggiungere con il consolidamento della Comunità Politica Europea proposta nel rapporto Franco-tedesco di Settembre 2023. Prima di tutto, però, i principali governi della “vecchia Europa” dovrebbero impegnarsi per un negoziato con la Federazione Russa. Invece, la famiglia socialista concorda la nomina di una Presidente di Commissione e di una Ms Politica Estera e di Sicurezza Comune all’insegna dell’escalation militare per l’impossibile vittoria in Ucraina.
Le politiche a scala europea sono decisive: dalla difesa, alla cooperazione allo sviluppo, dalla conversione ecologica alla transizione digitale, la scala nazionale è inadeguata. Ma si dovrebbe procedere con realismo, nella consapevolezza della Storia e delle identità dei diversi popoli continentali, irriducibili ad un unico “popolo europeo”. Si dovrebbe, quindi, percorrere la via inter-governativa, con le “cooperazioni rafforzate” o senza, quando possibile. In tale prospettiva, che senso ha escludere dalle scelte per i vertici dell’Unione uno dei più grandi Stati fondatori governato da una destra disciplinata sia sul vincolo atlantico sia su quello economico? Così, il vento soffierà sempre più forte.