Coppa Davis, Sinner è il campione che aspettavamo. Quante volte ci siamo illusi in questi 47 anni
Come fosse ieri. Nei ricordi di bambino, i ghigni cattivi di Tomas Smid e Ivan Lendl che rendevano vano l’ultimo ballo della Squadra, Adriano, Paolo, Corrado e Tonino, erano l’immagine del Male che vince. Praga, 1980. Quante lacrime, quella sera, per un furto quasi legalizzato, con papà che scuoteva la testa, arrabbiato nero con quei giudici di linea che sembravano burocrati del furto. Arrivederci ragazzi, anche se era chiaro a tutti che il vostro era un addio. Ma per chi ama lo sport ci deve essere per forza sempre un domani capace di lenire il dolore di una sconfitta che sconfinava nell’ingiustizia. Ancora non sapevamo che per noi malati di tennis, sarebbe stata una lunga traversata nel deserto. L’abbiamo percorsa con dignità, tifando per Francesco Cancellotti, per Omar Camporese, per Cristiano Caratti, per chiunque potesse riportare il nome del nostro Paese agli onori dello sport che tanto amiamo. Abbiamo avuto momenti di sconforto, chi si ricorda dei crampi che aggredirono Stefano Pescosolido nell’ostile Maceio, che fu la nostra Corea, correva l’anno 1992?
Eravamo sugli spalti del Forum di Assago nel dicembre del 1998, . Ma anche quella finale non fu una rinascita, quanto piuttosto un miracolo, raggiunto da un’altra Squadra, meno talentuosa e più sfortunata, che aveva dato l’anima per arrivare fino all’ultimo atto. Non siamo mai andati via. Abbiamo sofferto la serie B e la serie C della Coppa Davis, abbiamo vissuto con ammirazione l’era di Pete Sampras, poi l’epoca incerta che sembrava appartenesse a chiunque, argentini, australiani, tutti tranne uno dei nostri. Ci siamo divisi e ancora lo facciamo su chi fosse il più grande dell’età dell’oro, Federer, Nadal o Djokovic, il dibattito rimarrà aperto per sempre. Sei anni fa abbiamo alzato il sopracciglio quando qualcuno ci disse che c’era un ragazzo altoatesino che giocava «veramente» bene, calma ragazzi, quante volte ci siamo illusi per poi svegliarci alla casella di partenza. Per fare un movimento, ci vuole un campione capace di trascinare tutti gli altri. Non solo un ottimo giocatore, come lo sono stati Andreas Seppi e Fabio Fognini, tutti pionieri che oggi vale la pena di citare, di ringraziare.
L’orda svedese degli anni Ottanta, la mareggiata spagnola del nuovo secolo, sono sempre state guidate da un capobranco. Infine, è arrivato. Oggi, mentre quell’ex ragazzo rosso di capelli demoliva uno che costeggia i primi dieci del mondo, mica il primo che passa, ulteriore prova del raggiungimento di una dimensione alla quale appartengono oggi al massimo altri due giocatori, il succitato Djokovic e Carlos Alcaraz, ci è venuta in mente quella scena di Breaking Bad nella quale l’ormai onnipotente protagonista intima al capo della banda rivale di riconoscerlo, pronunciando il suo nome a voce alta. «Say my name». Senza di lui, non ci sarebbe il tenace Matteo Arnaldi, che dal suo esempio contro Djokovic ha imparato come vincere una partita che sembrava persa, non ci sarà Lorenzo Musetti quando deciderà di avere una testa adeguata al suo talento, e non ci potrebbe essere neppure il ritorno di
Abbiamo il Campione, quello che incute timore agli altri, ne è ultima testimonianza lo sguardo perso di De Minaur, che sulla combattività ci ha costruito una carriera. Nel momento in cui il tennis diventa finalmente lo sport di tutti, è giusto ricordare chi ci ha fatto compagnia durante questo viaggio faticoso durato 47 anni, tanto è il tempo che ci separa dall’ultima vittoria in Coppa Davis. Ma è sacrosanto aggiungere che nulla sarebbe possibile senza di lui. Non chiamatelo predestinato, perché gli fate un torto. È titolare senz’altro di alcune doti innate, quel tempo sulla palla frutto di una coordinazione occhio-corpo-mano non si insegna. Ma è anche il prototipo di un italiano diverso, che parla poco e lavora tanto, che crede in quello che fa ogni giorno. Ora sta raccogliendo i frutti della sua fatica. E noi con lui, finalmente, dopo tutti questi anni. Jannik Sinner. Questo è il suo nome.
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