Jonathan Glazer, regista del film shock “La zona di interesse”: «Mostro il Male che è in noi. Tutti noi»

jonathan glazer, regista del film shock “la zona di interesse”: «mostro il male che è in noi. tutti noi»

Jonathan Glazer, regista del film shock “La zona di interesse”: «Mostro il Male che è in noi. Tutti noi»

È il film del momento. Quello di cui tutti parlano da mesi. Candidato a 5 Oscar, vincitore di 3 Bafta (gli Oscar inglesi). La zona di interesse di Jonathan Glazer arriva nei cinema italiani il 22 febbraio. Molto liberamente ispirato al racconto omonimo di Martin Amis (2015). Il trailer italiano di La zona di interesse di Jonathan Glazer La zona di interesse di Jonathan Glazer: la storia del comandante di Aushwitz Impossibile non ne abbiate sentito parlare. “Vista lager”. “Se non mostri il Male resta solo banalità”. Sono giudizi critici opposti. Perché La zona di interesse (per noi un capolavoro) racconta di Rudolf Hoss (1901-1947: interprete Christian Fiedel), sua moglie Hedwig (Sandra Huller, protagonista anche di Anatomia di una caduta) e i loro figli. Lui fu il primo comandante di Auschwitz, ai bordi del quale visse con la famiglia. Tutto avviene lì, tra quelle belle mura (e sul lungo fiume, tra i boschi bucolici). L’orrore dell’Olocausto è oltre il muro di cinta, nei denti d’oro con cui giocano i figli, i resti che si incrociano nuotando e facendo canoa nel fiume… Chi è Jonathan Glazer Regista e sceneggiatore del film è l’inglese, ebreo, Jonathan Glazer (Glasgow, 1965). Autore di video clip, spot pubblicitari e video installazioni. I suoi film sono Sexy Beast (2000), Birth. Io sono Sean (2004) e Under the Skeen (2014). Intervista a Jonathan Glazer, regista e sceneggiatore di La zona di interesse Aveva letto il libo di Martin Amis, ovviamente. Ma come ha iniziato a pensare al film? Del libro avevo letto un’anteprima su un giornale. E l’ho mandata a Jim Wilson, il mio produttore. Poi abbiamo letto il libro. È stato 10 anni fa. Ai tempi di Under the Skin. Decidemmo che avremmo girato un film sull’Olocausto: ma come raccontarlo? Come fare qualcosa di “diverso”? Perché il libro parla di un lager immaginario, con un comandante immaginario. Però l’orrore era visto dalla casetta affacciata sul lager. L’Olocausto è stato racconto giustamente attraverso l’occhio delle vittime e il loro spirito di resistenza. Qui c’era chi il Male lo faceva, visto dal suo “nido”. Era terribile… È stato il libro che le ha suggerito come raccontare l’Olocausto in modo “diverso”, quindi? Volevo già raccontarlo dal punto di vista dell’autore del delitto. Il libro, che ho letto 3/4 volte in questi anni, mi ha dato “il permesso”. È stata come una scintilla. Se Amis l’aveva fatto, anch’io potevo entrare in questo terreno artistico così “pericoloso”. E l’ho fatto: il personaggio di Amis era immaginario ma ispirato a Rudolf Hoss, il comandante di Auschwitz. E allora mi sono concentrato su di lui, la sua famiglia, la sua casa. Ricordo che ho iniziato a scrivere la sceneggiatura in Polonia, con i miei collaboratori polacchi. Fino a quel momento avevamo “solo” parlato dell”idea di fare un film su quello che era successo lì. Il film sembra riguardare più il nostro oggi che l’Europa sotto il nazismo… Come fa un film ambientato nel 1943 a parlare a noi e di noi ? Questo ci siamo chiesti. La risposta è stata concentrarsi su qualcosa di primordiale, non “databile”: la violenza insita nell’uomo, la capacità di fare il Male che è dentro di noi. Non furono “anomalie”, ma persone normali che si trasformarono progressivamente in assassini di massa. Completamente dissociati dai loro crimini che per loro non erano tali. Perché? Questo è l’orrore e la domanda da farsi oggi. La filosofa Gillian Rose parla della “sacralizzazione dell’Olocausto”: il Male disceso dal cielo che ha colpito il popolo ebreo. Noi volevamo creare una specie di specchio, in cui possiamo ritrovare noi stessi. Un mio collaboratore tedesco che ha letto lo script, ci ha detto che la questione non è come persone comuni hanno potuto agire così. Ma farci riflettere su quanto siamo simili a loro: noi, la nostra vita, le nostre case… Eravamo a 50 metri da Aushwitz Cosa vi dicevate con gli attori, sul set? Come facevano loro a “disconnettersi” con quanto stavano rappresentando e facendo? I nostri protagonisti sono tedeschi: Sandra Huller e Christian Friedl. All’inizio so che erano restii. Poi hanno capito che non si trattava “solo” di mettere una divisa o un cappello. Non avremmo “feticizzato” nulla. Anzi, il contrario. Anche il resto della troupe era tedesco. E non abbiamo girato in uno studio, ma a 50 metri dalle mura di Auschwitz. Non potevamo non parlarne… Cosa possiamo fare perché questo non si ripeta? Evolverci. Riflettere su quello che siamo. Ognuno di noi dovrebbe pensare che può diventare un carnefice. Chi decidiamo di amare e chi decidiamo di odiare? Perché? Non vediamo l’orrore dentro alle mura che costeggiano la villetta. Ma il rumore lo sentiamo. La colonna sonora del film è fondamentale: la compositrice Mica Levi ha fatto un lavoro straordinario…  Ci conosciamo da Under the Skin. Qui abbiamo fatto tutto insieme: lei è stata nella stanza con me e Paul Watts, il montatore, per 10/11 mesi. Ha scritto così tanta musica… La sincronizzazione totale tra musica e immagini: questo cercavamo. Del resto, anche se il libro è in inglese e io e i miei collaboratori siamo inglesi, fin dall’inizio abbiamo pensato al film nelle lingue locali. Tedesco, polacco, yiddish. Anche lo schermo nero è un’immagine Il film comincia e finisce con uno schermo nero: non vediamo nulla, c’è solo la musica. perché? Il film, dal punto di vista della scenografia, doveva essere realistico. Però sotto, dietro, intorno a quelle immagini così “vere” doveva esserci altro. La musica serve a questo. A creare un effetto teatrale ed espressionista, “antirealistico”. Poi ho aggiunto quello schermo nero, per creare ancora più separazione tra il realismo delle immagini e la sensazione che volevo lasciare. Anche lo schermo nero è un’immagine: quella iniziale dice che oltre a quello che vedi c’è quello che senti. Anzi che quello che senti precede ciò che vedi: l’orecchio viene prima dell’occhio, è più importante. Oltre alla musica ci sono i rumori, i suoni: il sound design in questo film è fondamentale… Io non volevo mettere in scena l’Olocausto. La mia è una interpretazione e il suono “dipinge” l’Olocausto al posto delle immagini. Fa entrare ciò che non vediamo nella nostra mente. Il suono è l’orrore: la contrapposizione tra i rumori del lager e quelli della casa. Anche qui c’è dietro un lavoro incredibile del mio sound designer Johnny Byrne. Prima la preparazione storica, poi le registrazioni. Una squadra tecnica che di notte, in Germania, camminava per le strade e registrava suoni, voci lontane, anche grida di aiuto… alla fine hanno creato un paesaggio sonoro che è anche lui reale. Solo luce naturale Nel film, le scene della ragazza polacca della Resistenza che suona per la famiglia Hoss e nasconde cibo dove sa che i prigionieri possono trovarlo, è girata con una tecnica particolare. La poco usata fotografia termica. Tutte le luci del film sono naturali. Solo la luce rossa che viene dal camino del crematorio e illumina la stanza della suocera di Hoss, è artificiale. Ma di notte, quando si muove la ragazza, non c’è luce naturale. E allora abbiamo pensato alla fotografia termica, che è poco usata perché “complicatissima” e modernissima. E questo ha aumentato ancora di più l’effetto: non siamo 80 anni fa. Siamo nel 21mo secolo. Il filosofo tedesco Gunther Anders dice che l’Olocausto non è finito nel 1945, ma continua in altri modi. Era questo che voleva dirci? Certo. Tutto il film ci dice che non stiamo parlando di un episodio storico remoto, ma della violenza insita in noi. Della nostra complicità, parallela alla nostra dissociazione dagli orrori del mondo. Il nostro dire “l’hanno fatto altri” per proteggere i nostri desideri, la nostra sicurezza, i nostri lussi. Noi. Con il mio produttore abbiamo parlato anche dell’empatia selettiva. Quelli che “salviamo” e quelli che “uccidiamo”. La madre in visita nota con ribrezzo gli ebrei in casa: i servitori. «Gli ebrei sono oltre il muro», le risponde la nuora. Il film non dice che possiamo essere come i nazisti. Non è un’equivalenza morale: sarebbe stato riduttivo. L’orrore è che anche loro hanno i loro sogni, si preoccupano delle loro famiglia e dei loro figli. «Viviamo come sognavamo da quando avevamo 17 anni. Abbiamo la casa furi città per i nostri figli», dice la signora Hoss. Che sa che il marito per lavoro uccide famiglie e figli. Se continuiamo a pensare che questo sia successo 80 anni fa… Se continuiamo a pensare a noi solo come possibili vittime e non come possibili carnefici come gli Hoss, non cambieremo mai. Non ci evolveremo mai…

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