Ponte sullo Stretto, dal progetto ai contenziosi: tutti i nodi da sciogliere

ponte sullo stretto, dal progetto ai contenziosi: tutti i nodi da sciogliere

Ponte sullo Stretto, dal progetto ai contenziosi: tutti i nodi da sciogliere

Si fa presto a dire Ponte. Il progetto infrastrutturale da 3,3 km, con un impalcato di

3,6 km e con un traffico stimato in 6mila veicoli all’ora e 200 treni al giorno, è più facile a dirsi che a farsi. E del resto 54 anni di stop and go stanno lì a testimoniare molte cose: innanzitutto il cortocircuito dettato dai diversi orientamenti politici che si sono susseguiti e che lo hanno di volta in volta ripescato e abbandonato. E, storia nota, testimoniano l’immobilismo atavico che costella la storia delle infrastrutture italiane, complice una macchina burocratica non proprio grintosa e spumeggiante. Ma del resto un’opera che è passata dai quasi 5 miliardi del 2001 (delibera Cipe 121/2001) ai 6,3 miliardi stimati dalla Corte dei conti nel 2011 fino agli 8,5 miliardi dell’anno seguente non può che destare sospetto e ammirazione, critiche feroci e appassionati endorsement. Ma perché il progetto corra spedito come vorrebbe il titolare delle Infrastrutture Matteo Salvini che carica le lancette di qui a due anni per l’apertura del cantiere, molti nodi dovranno essere sciolti. Il primo di tutti, il vero protagonista di questa operazione, il progetto a campata unica ripescato dall’oblio. «Non c’erano alternative: o tornavamo a quella ipotesi – dicono a Palazzo Chigi chiedendo l’anonimato – oppure mandavamo in malora l’intera operazione». E dunque per parlare del Ponte oggi bisogna ripartire da lì, da dove eravamo rimasti.

«Sul progetto del Ponte riproposto oggi a distanza di 20 anni fu condotto da vari governi, Monti in primis, un’analisi puntuale e accuratissima che alla fine aveva sconsigliato di proseguire su quel progetto perché insostenibile dal punto di vista finanziario: si trattava di un costo costruttivo di circa 4 miliardi di allora con un project financing tutto a favore dei privati ai danni delle casse dello Stato. Non solo: il progetto era da accantonare anche perché presentava una serie di anomalie come l’assenza di una serie di autorizzazioni ambientali e tecniche. Ripartire da lì significa propaganda e non realismo». Taglia corto Graziano Delrio, senatore del Pd e ministro delle Infrastrutture e dei trasporti nel governo Renzi e poi successivamente nel governo Gentiloni. L’ex ministro si riferisce al gruppo di lavoro incaricato dalla ministra Paola De Micheli di analizzare pro e contro della realizzazione di quel progetto: quell’analisi venne ereditata dal successore di De Micheli, Enrico Giovannini che all’esito del rapporto dei tecnici decise di chiedere un ulteriore parere, per un progetto a tre campate, e la affidò a Rfi.

Che il Ponte abbia avuto una vita tormentata, insomma, è fatto incontrovertibile. Ma sgombriamo subito il campo da equivoci: il pool di esperti nominato dal ministero di Porta Pia non aveva dubbi sui benefici che quell’opera avrebbe portato. «Il sistema di collegamento stabile completerebbe un corridoio multimodale passeggeri e merci, aumentando l’utilità complessiva degli investimenti già fatti ed in corso di realizzazione sull’intero sistema di mobilità interessato, in primis il nuovo tunnel ferroviario del Brennero», osserva il rapporto. Che aggiunge come l’opera «consentirebbe di

realizzare una rete di collegamenti stradali e ferroviari interni al Mezzogiorno per

aumentarne la connettività interregionale, incrementando il mercato interno alla

macroregione con rilevanti potenzialità di sviluppo di questa parte del Paese». Tutto rose e fiori? Proprio no, visto che il pool snocciola poi tutte le perplessità sulla campata unica. Innanzitutto il «vincolo della sua ubicazione nel punto di minima distanza fra Sicilia e Calabria (circa 3 km), che allontana l’attraversamento dai baricentri delle aree metropolitane di Messina e Reggio Calabria, ma che al tempo stesso comporta comunque la necessità di realizzare un ponte sospeso con una luce maggiore del 50% di quella del ponte più lungo ad oggi realizzato al mondo». E ancora: «Ad un notevole impatto visivo (anche in ragione dell’altezza necessaria per le torri) e alla vicinanza di zone sensibili sotto il profilo naturalistico, fanno riscontro una ridotta sensibilità sismica dell’impalcato e nessun impatto sulla navigazione».

Ma tra le obiezioni c’è anche la formula del project financing che il gruppo di lavoro non guarda con favore. Lo conferma Ennio Cascetta, ordinario di Pianificazione dei Sistemi di Trasporto all’Universita Federico II di Napoli, nonché componente di quel gruppo di esperti che scrisse il verdetto sulla campata unica contrapponendole ben altre tre alternative. «Sarebbe a mio avviso un errore – dice – recuperare quel modello economico e non tentare invece il finanziamento pubblico anche alla luce delle nuove risorse Pnrr e Pnc: il project financing è più oneroso per lo Stato e per gli utenti, incluso Rfi, che devono comunque coprire un costo dell’investimento più alto perché finanziato sul mercato dei capitali a tassi più elevati». C’è poi il tema delle ferrovie: «Quel progetto va aggiornato – dice – perché nel frattempo sono cambiate le norme tecniche della percorriibilità dei treni». E infine, aggiunge, «sarebbe utile comunque sottoporre quell’ipotesi al dibattito pubblico con gli steakeholders, uno straordinario strumento di conciliazione intorno a grandi progetti infrastrutturali specialmente quando sono così controversi». Cascetta ci tiene però a fare una precisazione: «Bisogna dare il merito al ministro Salvini – conclude – di aver recuperato quest’opera e averla messa al centro dell’agenda politica del governo».

L’agenda si diceva. Che il Ponte sia gradito ai governatori del Mezzogiorno è fatto incontrovertibile. Lo è anche per Vincenzo De Luca, presidente della Campania, mai tenero con l’opposizione. Non sarà pensabile però resuscitarlo così com’era. Come per le ferrovie, ci saranno upgrade anche per quanto riguarda l’aspetto della navigazione. «Bisogna tenere presente che quel tratto di mare è attualmente il secondo al mondo per traffici – dice Francesco Munari, ordinario di diritto Ue all’Università di Genova e partner Deloitte Legal – a quelli Nord-Sud oggi vi sono tantissime navi che viaggiano sulla direttrice Est-Ovest, e di questo aspetto è fondamentale tenere conto». L’esperto ci tiene a chiarire che «si tratta di una sfida infrastrutturale senz’altro complessa, ma una volta studiati e risolti tutti i profili tecnici e tecnologici, questa sfida andrebbe vinta». E spiega come «se tecnicamente fattibile, la campata unica parrebbe preferibile dal punto di vista della navigazione, perché in tal modo si escludono i piloni in mezzo al mare, che possono creare più ostacoli ai traffici marittimi». L’altro grande tema che riguarda la navigazione è l’altezza dell’opera. Per Munari è necessario «garantire una luce molto generosa, mi risulta che quella prevista dai progetti finora divulgati sia di circa 65 metri: allo stato pare un’altezza congrua, ma prima di esserne sicuri dovrebbe a mio avviso essere fatta una verifica molto approfondita su tutti i fattori soprattutto prospettici, come il previsto innalzamento del livello del mare e lo sviluppo delle costruzioni navali». Il Ponte dovrà reggere alla prova degli anni e del progresso tecnologico «onde non commettere errori di sottostima, che sarebbero irreversibili; il Ponte, se ci sarà, dovrà funzionare per molti decenni senza compromettere in alcun modo il passaggio di tutte le navi, attuali e future».

Ad accendere un faro sul decreto-legge che resuscita il progetto a una campata è stato addirittura il Quirinale. Il Colle vuole vederci chiaro su tutti i rapporti negoziali che il provvedimento strappa alla cessazione e fa tornare in pista. Perché c’è un ma grosso come una casa. La parola fine al progetto del Ponte, contenuta in un decreto a firma di Mario Monti nel 2012, non è stata indolore. Le società vincitrici del bando di gara e la stessa Società dello Stretto, hanno chiesto danni, indennizzi e risarcimenti per la risoluzione anticipata degli accordi. In particolare Eurolink per 700 milioni di euro, Parsons Transportation per 90 milioni e la Società dello Stretto per altri 320 milioni di euro. La vicenda giudiziaria di questi ricorsi è intricatissima: qui basti ricordare che la questione dei risarcimenti è finita addirittura in Corte costituzionale che nel 2019 ha stabilito il perimetro degli indennizzi da corrispondere alle societa maggiorato del 10%. Ora il decreto-legge, all’articolo 4, resuscita i vecchi accordi stabilendo la rinucia a ogni rivalsa attraverso atti aggiuntivi e la prosecuzione, come se nulla fosse, dei rapporti contrattuali «caducati». C’è quindi un nodo giuridico legato al fatto che il progetto non contenga nuove gare; c’è l’occhio vigile dell’Europa e infine anche la percorribilità di una soluzione simile, dal momento che la rinuncia a ogni azione è volontaria e probabilmente non gratuita. C’è infine una questione di opportunità: visto che i ricorsi sono ora davanti al giudice dell’appello che si troverebbe quindi, spiegano fonti del ministero, in vacatio dell’oggetto sul quale decidere. E last but not least una questione di remunerazione dell’amministratore delegato della Società Stretto di Messina al quale non sarebbe applicato il tetto di 240mila euro previsto per gli amministratori delle società pubbliche. Tutte questioni che secondo alcuni osservatori molto qualificati e che masticano norme sugli appalti pubblici sono facilmente risolvibili. Ma su questo l’ultima parola lo avrà prima il governo con i suoi ritocchi. E poi il Parlamento. Tutto sotto il segno della neverending story che risponde al nome di Ponte sullo Stretto.

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