(note) – GettyImages-1244101142.jpg – 2565693 – esterne-b4585f56-ac37-4c81-93ee-4689e781b2ea – image/jpeg – inviato da “p.salvatori” Mario Draghi, Italy’s prime minister, arrives for the European Union (EU) leaders’ meeting at the European Council in Brussels, Belgium, on Thursday, Oct. 20, 2022. European natural gas rose following a five-day losing run, with traders weighing potential supply risks this winter while EU
Nella sua ultima fatica letteraria, Matteo Salvini racconta in chiaro su Mario Draghi ciò che, finora, era stata solo materia di retroscena (e forse non è un caso che lo faccia proprio adesso). E cioè che dopo (non prima) la famosa conferenza stampa di fine anno, in cui si era sostanzialmente candidato al Colle, l’allora premier lo sondò sull’eventualità. Ma, a domanda su cosa ne sarebbe stato del governo, gli rispose con un laconico “lo vedremo dopo”. Il cronista sa che, in fondo, a Salvini l’idea di Draghi al Colle non piaceva molto comunque. Sia come sia, non c’è dubbio che la sua candidatura franò proprio sul tema del governo, perché il Parlamento non avrebbe votato un presidente con scioglimento incorporato. Insomma, ci fu un problema di regia politica, amplificato dalla sovraesposizione mediatica. Lanciare la candidatura, senza una soluzione in tasca sul “dopo”, fu fatale. Fine della premessa.
Adesso l’ipotesi, di cui si dibatte con eccessivo e imprudente anticipo, riguarda l’eventualità che Draghi diventi leader Commissione europea. E il film rischia di ripetersi nella modalità del romanzo Quirinale. Gli indizi ci sono tutti, o quasi. Si sa, l’importanza di chiamarsi Mario Draghi è anche questa: avere una fama (tu chiamala se vuoi: reputation), che ti precede e ti accompagna quasi “a prescindere”. E che suscita un’attesa e una curiosità che si amplificano anche quando il titolare della fama pronuncia monosillabi. Basta che si appalesi, ed è già un florilegio di ipotesi. Se poi invece parla, e come parla, e le sue parole, come quelle pronunciate in Belgio, sono un perfetto programma per la prossima legislatura europea, se l’eventualità non è smentita dall’interessato, sia pur come autotutela tattica in vista del voto, se il nome rimbalza sui giornali e nelle cancellerie diventando un elemento di dibattito politico, ecco che il tema è squadernato (con logoramento incorporato).
Per carità, questa volta non ha detto “sono un nonno a servizio delle istituzioni”, però la percezione collettiva è quella di una discesa in campo e la sensazione, vuoi per vanità, vuoi per imperizia politica, è che non sia turbato più di tanto dal dibattito. La candidatura di fatto già c’è, ma non c’è la regia politica anche perché, a un mese e mezzo dal voto e con questo casino nel mondo, è tecnicamente impossibile che ci possa essere. E tuttavia la semplice eventualità già rivela un vizio di certe élite nel perseguire disegni che prescindono dall’elemento popolare. Perché è vero che, diciamo così, non c’è una votazione diretta del governo europeo, però il voto conta come volontà e come equilibri tra i partiti maggiori, popolari e socialisti.
Ecco, anche volendo, la regia è al momento impossibile. Senza il voto, non si intravede nemmeno quale sia la logica politica su cui svilupparla. Si dà, forse anche prematuramente, per fuori dai giochi Ursula von der Leyen però, in caso di vittoria dei popolari è difficile che non puntino su un loro candidato: quando tolsero Manfred Weber, misero appunto Ursula che, come Weber, era popolare e tedesca. Così come, in caso di vittoria dei socialisti, non si capisce perché l’asse tra Pedro Sánchez e Olaf Scholz non dovrebbe non rivendicare un proprio candidato ma una figura che sostiene le cose opposte che dicono i tedeschi: più Stato, più debito, più integrazione, più esercito comune. Draghi non è popolare, non è socialista, propone una rivoluzione giusta ma invisa a mezzo continente. Ed è italiano – non proprio un dettaglio per i nordici – con un rapporto peraltro quantomeno controverso col suo paese. È l’Italia, bellezza: chi l’ha sostenuto, invece di rivendicarlo, fa di tutto per far dimenticare il sostegno. E l’elenco va da Matteo Salvini che fa il vago, e non ci voleva il libro per capirlo, ad Antonio Tajani ad Elly Schlein (“Draghi non è del Pse”), postura indicativa di una distanza rispetto a ciò che è stato, prima ancora che di un giudizio sull’eventualità di Draghi alla guida della Commissione europea. Tradotto: quell’agenda è stata bocciata dal paese, ci sono le elezioni, stiamo alla larga dal ricordo. Solita attitudine italica: l’uomo della necessità, che riesce a fare quel che può fare nel casino in cui si trova ad operare, prima diventa “l’uomo della provvidenza”, oltre ogni limite ed errore, poi arriva la damnatio memoriae.
Per Giorgia Meloni, che invece non lo ha sostenuto, potrebbe financo esserci, secondo uno schema tutto teorico, il vantaggio di sostenere una proposta che la mette al centro del gioco. Ma perché mai, per come è fatta, dovrebbe intestarsi uno di cui è stata all’opposizione, esponendosi alle accuse di incoerenza, alimentando le tensioni con Salvini, senza condividere la cosa con Tajani che nei Popolari conta e sapendo che, dal giorno dopo, nemmeno le risponde al telefono? La verità è che meno diventa elemento del dibattito politico, meglio è, anche per Draghi. La sua vera chance, di cui dovrebbero fare tesoro coloro a cui sta a cuore l’idea, è, semmai vi sarà, l’emergenza. Se diventa un elemento di spartizione delle poltrone tra Popolari e Socialisti va a finire come quando si bruciò tra Letta, Giorgetti, Franceschini. Se resta l’uomo della necessità, magari può accadere che arrivi la chiamata davanti alla necessità. Un po’ come accadde per palazzo Chigi. E, guarda caso, lì non si era candidato.
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