L'Emmerdeur. Non solo di sinistra. La vulgata antifascista dei liberali

l'emmerdeur. non solo di sinistra. la vulgata antifascista dei liberali

L’Emmerdeur. Non solo di sinistra. La vulgata antifascista dei liberali

Quando si parla di vulgata antifascista – espressione coniata da Renzo De Felice per stigmatizzare un quadro semplicistico del fascismo visto come banda di facinorosi al servizio della reazione agraria, che s’impose con la violenza e dominò per vent’anni un paese rassegnato ma tacitamente ostile – il pensiero va all’Anpi, alle sinistre, alle ricostruzioni storiche condizionate dai rancori della guerra civile. Il mito antifascista, ha scritto lo storico Giovanni Belardelli, in un dibattito del CentroRSI del marzo 2008, ha dato vita a una «tradizione inventata» ma, «in riferimento alla funzione assolta dalla “vulgata antifascista”, vorrei almeno sottolineare, però, come di “vulgate” ve ne siano state varie. Distinguerei da una parte il racconto ufficiale della nuova Italia antifascista, incentrato sulla proclamata estraneità al fascismo della maggioranza degli italiani e sulla larga partecipazione popolare alla Resistenza; dopo il 1945 la costruzione di un tale racconto risultava necessaria e utile perché il Paese si incamminasse sulla via della democrazia. Dall’altro vi è stata una “vulgata” più specificamente ascrivibile al Pci, costruita in primo luogo sull’idea che il partito stesso, per la sua ventennale opposizione clandestina al regime e per il ruolo centrale svolto poi nella Resistenza, rappresentasse la forza più coerentemente antifascista e anzi quella che aveva il “potere battesimale” di decidere dell’antifascismo altrui. Da questo punto di vista, la vulgata antifascista-comunista rappresentò un’arma politica usata contro la Dc, accusata dai comunisti di voler instaurare un regime “clerico-fascista”. Peraltro, fu sulla base della vulgata antifascista-comunista che il Pci, in anni nei quali guardava all’Urss come al proprio modello, poté tuttavia acquisire una legittimazione politica come partito “democratico” perché “antifascista”; e in tal modo ricevere anche una sorta di risarcimento per l’emarginazione dall’area del governo».

Si può condividere ma a patto di non dimenticare che a 35 anni dalla caduta del muro di Berlino, con la fine del Pci e con i suoi eredi confluiti in partiti di governo con tutte le carte in regola, la strumentalizzazione della Resistenza a beneficio del Pci diventa sempre più un ricordo del passato mentre il “racconto ufficiale della nuova Italia antifascista”, è più diffuso che mai, sui mass media e nelle cerimonie ufficiali. Soprattutto come tavola di valori di un fronte antifascista (che esalta ora il contributo della cultura cattolica laica e liberal-democratica alla Resistenza), intento a esorcizzare i fantasmi del fascismo, che si ripresenterebbero oggi sotto le bandiere del sovranismo, nel neo-nazionalismo, dell’antieuropeismo e della critica della globalizzazione.

Non è casuale che l’opera storiografica di Renzo De Felice sia stata rimossa dalla coscienza collettiva

Come sono stati rimossi, del resto, i tentativi fatti dai grandi intellettuali del Pci d’antan di ricollocare il fascismo nella storia d’Italia. Recentemente, in un magistrale articolo su HuffPost, Stefano Folli ha ricordato il punto di svolta segnato da Giorgio Amendola con la sua discesa in campo in difesa del revisionismo storiografico defeliciano. «Egli non condivideva tutti i risultati del lavoro dello storico. Ma faceva proprio il punto fondamentale: la necessità di collocare il fascismo nella storia d’Italia, studiandone la genesi, gli sviluppi, il catastrofico finale. Al di fuori di ogni moralismo e anche, per quanto possibile, delle passioni di parte. Scriveva Amendola sull’Unità, organo del Pci: “Non si possono cancellare venti anni della storia d’Italia. Non fare la storia del fascismo significa condannarsi a non comprendere le ragioni dell’avvento e della durata del fascismo e la natura della pesante eredità che esso ha lasciato”. Prima di De Felice e di Amendola, lo studio del fascismo si riassumeva nell’esecrazione (legittima, sia ben chiaro). Ma ora si apriva la strada alla ricostruzione storica. Che voleva dire, in un certo senso, consegnare il fascismo al passato dopo averlo, appunto, storicizzato». Non è questa l’aria che tira oggi, se si pensa a scrittori e storici come Aldo Cazzullo (v.  Mussolini il capobanda), ad Antonio Scurati (v. Fascismo e populismo: Mussolini oggi) a Luciano Canfora (v.  Il fascismo non è mai morto).

Ritorniamo quindi a climi culturali predefeliciani? A mio avviso, la presenza di esponenti della sinistra tra i nuovi banditori della crociata antirevisionista, rischia di far dimenticare un dato importante. Ovvero che alla vulgata hanno dato un contributo non inferiore a quello comunista, gli esponenti della cultura laica e liberale, specialmente di ascendenza azionista e GL.

Ho già fatto rilevare in altra sede che la lettura degli scritti di Nicola Chiaromonte, un grande prince de l’esprit, figura di primissimo piano della cultura italiana ed euroatlantica, non aiuta a capire cosa fu il fascismo e per quali ragioni durò più di vent’anni. E in un recente articolo – uscito in HuffPost e dedicato a un altro grande e nobile esponente del liberalismo politico, Mario Vinciguerra, ho ricordato che «Ne I partiti italiani dallo Statuto albertino alla partitocrazia, Vinciguerra, vide nei marciatori su Roma un coacervo indiscriminato dei rottami sociali, lasciati, come sempre, da una lunga guerra»; giudicò il fascismo «opera di improvvisazione di un ristretto gruppo di uomini – giornalisti, organizzatori sindacali, agitatori di piazza – raccolti intorno alla redazione del Popolo d’Italia e alla irruente personalità mussoliniana»; e, come gli storici della vulgata antifascista, non prese mai in seria considerazione l’idea del consenso di massa al regime.

Ma forse la vulgata in nessun altro periodico culturale è stata così presente (e intransigente) come ne Il Mondo di Mario Pannunzio. A mio avviso, ciò si deve non tanto alla provenienza azionista di tanti e illustri collaboratori (Pannunzio, in fondo, proveniva dal Pli) quanto al bisogno di rimarcare un antifascismo “senza se e senza ma” quasi a compensare un anticomunismo altrettanto deciso e ben diversamente motivato. Solo equiparando i due regimi totalitari – fascista e comunista – si aveva il diritto a non essere ricacciati nell’area del liberalismo conservatore (le destre Pli) o del conservatorismo liberale (i monarchici badogliani) che, negli anni Cinquanta, pubblicavano, sui grandi rotocalchi di massa, rievocazioni del regime fascista e del suo duce “senza incensi e senza veleni”.

Sono ragioni da non sottovalutare ma che oggi, a quasi 80 anni dalla fine del fascismo inducono a confinare – per quanto riguarda almeno il giudizio storico del fascismo – Il Mondo e i suoi intellettuali (tutti, va ribadito, di elevato sentire) nell’era predefeliciana. Valga tra i tanti esempi, che si potrebbero addurre, di chiusura mentale alla storicizzazione del fascismo, l’articolo che Vittorio De Caprariis – sul Mondo 7/2, 1961 – dedicò non alla Storia d’Italia dal 1861 al 1958 di Denis Mack Smith ma alla recensione che ne fece, nello stesso anno, Gioacchino Volpe su Nuova Antologia’, Un secolo di storia sotto torchio (ripubblicato poi nel volume Nel Regno di Clio, Ed, Volpe Roma 1977). L’articolo era intitolato Elogio del delitto (sic!) e De Caprariis, che come il suo amico e collega Rosario Romeo, non aveva alcuna stima per lo storico inglese, si chiedeva, nondimeno, che cosa ci fosse di così scandaloso nelle pagine in cui venivano ricostruite la genesi, la natura e la funzione storica del movimento mussoliniano. «Dal 1921 in poi il fascismo è esattamente quello che dice Mack Smith: le sue bande erano costituite, in massima parte, da avventurieri e da criminali, utilizzati molto spesso per esercitare terrorismo ad uso privato e sempre per imporre con la violenza, ad un paese recalcitrante ed agli avversari, un regime odioso e sciagurato. Il Volpe, che ha scritto in altri tempi una Storia del movimento fascista, non può ignorare le distruzioni determinate di Camere del Lavoro e di Case del Popolo, di cooperative socialiste e cattoliche operate dai fascisti, le loro infinite violenze private a danno di persone e di beni, le purghe e le bastonature e gli omicidi volontaria di avversari, ed anche le rapine e i saccheggi che a questi si accompagnavano. In buona lingua italiana questa attività, che sia esercitata da un singolo o da un partito o addirittura dagli organi dello Stato, si chiama attività criminale. E non v’è rivendicazione pratica o ideale che possa giustificarla o anche solo colorirla di colori meno crudi e detestabili; non v’è possibilità alcuna di imbastire intorno ad essa un discorso a partita doppia: “Male indubbiamente… ma anche bene”. Nell’attività criminale, individuale o collettiva, non v’è possibilità di bene: il giorno in cui nella coscienza dell’uomo si offuscasse questa semplice verità, l’umanità tornerebbe indietro di millenni. Non so quali siano pel Volpe i “giusti motivi di critica” al fascismo; certo è, però, che, per tutti coloro che hanno cuore di uomo, la critica principale non è quella di aver travolto il paese in una guerra sciagurata e nella più disastrosa disfatta della sua storia (ché queste sono cose che possono accadere sotto ogni regime), ma puramente e semplicemente di aver distrutto la libertà in Italia e di aver edificato al suo posto, con metodi criminali appunto, con la violenza, gli assassini, le persecuzioni e i tribunali speciali, un’odiosa dittatura. Questa non è polemica di parte, ma semplice e schietta verità.».

A leggere lo scritto di Gioacchino Volpe con occhio chiaro e con affetto puro ben diversa è l’impressione che se ne ricava oggi. «Lo Smith – scriveva quello che Romeo considerava il più grande storico del Novecento, come testimonia l’importante scritto del suo allievo, Guido Pescosolido, Volpe e Romeo: il maestro e l’allievo, in Nuova Storia Contemporanea, novembre-dicembre 2000 e la corrispondenza che lo accompagna – si diffonde, su la crisi italiana del dopo guerra, con riferimenti agli anni anteriori ed al suffragio universale che ne avrebbero creato certe premesse. Agitazioni e disordini di piazza. Liberalismo e socialismo ridotti al puro involucro. Vuota la scena politica, per la bancarotta degli altri partiti. “Inconsistente il mondo parlamentare”. “Inefficace ogni opposizione costituzionale” ecc. Possiamo convenire in tutto questo, sebbene non tutto sia negatività. […] Insomma, per un paese come l’Italia, non c’è una via che sia buona. Il fascismo non solo è “un grande guazzabuglio di idee” (e certo, nasceva dopo che la guerra aveva dissolto vecchie formazioni politiche e scompigliato formule di partito, rimescolato gli elementi loro, imbastito nuove formazioni!), ma per lo Smith esso è fin dal principio, quando ebbe l’adesione di valentuomini come un Croce e tanti altri uomini della politica o d’altra vocazione (ricordo un Puccini, Toscanini ecc.) per lo Smith esso è mescolanza di idealismo e banditismo e poi, dopo sconfitto Mussolini, nelle elezioni del 1919 e dichiaratosi egli, oltre che contro il socialismo, anche contro il regime parlamentare, vero e schietto banditismo. “Avventurieri”, “predatori”, “assassini” tengono il campo: presso a poco, quelli stessi che un secolo prima avevano dato l’avvio al Risorgimento, come dice lo Smith chiaramente a proposito di quei primi “motori” o “forze d’urto”; quelli stessi che ora seguono anche D’Annunzio a Fiume, “accozzaglia di nazionalisti, ex-combattenti, socialisti dissidenti, avventurieri pronti al sangue”».

Per De Caprariis, Volpe e Mack Smith, però, concordavano su un punto, la tesi di una sostanziale continuità tra fascismo e Risorgimento: una continuità che per il primo era (ovviamente) un titolo di gloria del fascismo mentre, per il secondo, la riprova delle ombre che gravavano sul Risorgimento.

Per lo storico atripaldino non c’era alcun dubbio che il fascismo potesse definirsi come un vero e proprio Antirisorgimento. «Ciò che dà un senso alle parole è il clima storico, sono gli ideali da cui esse sono assunte ed espressione: quando i protagonisti del Risorgimento o dei decenni liberali dell’Italia unitaria parlavano di “potenza” e di “grandezza” del paese, le loro parole avevano ben altro significato che quello che esse assumevano nella bocca dei fascisti. Perché grandezza e potenza non andavano mai disgiunte per quegli uomini dalla libertà; libertà interna, civile e politica; che s’era rivendicata contro i regimi assolutistici italiani non meno che contro gli austriaci. E non andavano neppure disgiunte dalle visioni di un consorzio civile internazionale, del quale partecipare, assumendone, responsabilmente, le regole. Tra un Crispi, che pure voleva l’espansione coloniale e la grandezza e potenza d’Italia, e coloro che avevano bisogno di poche “centinaia di morti” per sedere al fianco di Hitler, c’è, checché ne pensi il Volpe, una differenza di clima ideale e morale che è anche differenza di clima storico, e che impedisce ogni continuità. Il problema, del resto, era stato posto nettamente già durante il fascismo e proprio in polemica con la storiografia di ispirazione fascistica: la caratteristica individuante e propria dell’età risorgimentale, fu detto allora, era stato il culto sincero e profondo della religione della libertà. E dunque, il fascismo, proprio, per il suo spirito e la sua ideologia radicalmente illiberali e per quei metodi criminali che si sono ricordati di sopra, era non già la prosecuzione del Risorgimento, ma la sua antitesi più netta, era l’Antirisorgimento».

De Caprariis aveva ragione nel richiamare la dimensione innegabilmente liberale del Risorgimento (presente nello stesso Giuseppe Mazzini venerato sia dai fascisti che dagli antifascisti circostanza che va spiegata e approfondita seriamente senza false indignazioni) ma era portato a sottovalutare la complessità di una cultura politica, quella dei Padri Fondatori dell’Unità d’Italia che conteneva aspetti se non protofascisti (come pretende una recente storiografia all’Alberto Banti) certo “realisti” e consapevoli dell’imminente età dell’imperialismo, nel senso spiegato da Federico Chabod nel suo capolavoro La politica estera italiana dal 1870 al 1896 (ed. Laterza 1962). In fondo, non aveva tutti i torti Volpe, quando poneva il discorso della continuità su basi più aderenti ai diversi momenti storici attraversati dall’Italia. «Sì l’oggi è sempre un po’ figlio dell’ieri, ma è anche figlio di se stesso, figlio di fatti e circostanze e necessità nuove e impensate che operano dal di dentro e dal di fuori, specialmente sui piccoli e mezzani paesi posti in luoghi nevralgici del mondo, ed esposti a tutte le ventate del mondo stesso». Erano osservazioni di metodologia storica che indubbiamente non passarono inosservate a uno storico geniale – di sicura fede liberale – come Giuseppe Are – forse più di Romeo allievo ideale di Volpe – nei suoi studi sul nazionalismo italiano.

A ben riflettere, in storici come de Caprariis, il giudizio politico sul fascismo – che per nessun liberale può essere positivo oggi come sessant’anni fa – si traduceva in una liquidazione sommaria del famigerato ventennio che una storiografia più attenta e distaccata dagli eventi non avrebbe potuto avallare in seguito.

Quando apparvero interpretazioni lontane dal moralismo liberaldemocratico e azionista, lo storico non esitò a liquidarle sotto il peso di una ingiustificata ironia. Ѐ il caso della linea Giacomo Noventa/Augusto Del Noce e della teoria del fascismo come “errore della cultura”. Come si legge nella stroncatura di un saggio di Del Noce apparso su Humanitas – gennaio 1961 – Per una interpretazione del Risorgimento (Il pensiero politico del Gioberti), scriveva nell’articolo Il padre del Risor-gimento – Il Mondo 2/5, 1961 «l’intento del Del Noce non è tanto il proporre una nuova interpretazione del Risorgimento quanto di riproporre per l’oggi un’ideologia che assume inevitabilmente colori reazionari e di coprirla col fascino suggestivo del passato, della più gloriosa tradizione nazionale che il nostro paese può vantare. E basta dare un’occhiata sommaria ai giudizi che egli formula sull’azionismo e su ciò che chiama il “resistenzialismo”, ossia sullo spirito e gli ideali della Resistenza per rendersi conto di ciò. In uno stesso periodo si può leggere che interventismo democratico e mazziniano ed interventismo democratico e mazziniano ed interventismo mussoliniano erano, ad un di presso, la stessa cosa, che la rottura tra i due tipi di interventismo si può configurare come il divorzio di realtà e idealità, che in Mussolini v’è una continuità piena tra originario socialismo rivoluzionario ed il successivo fascismo, francamente ci si meraviglia che una sola pagina possa sopportare tante sciocchezze».

Del Noce non replicò alla recensione a differenza di quanto avrebbe fatto con Nicola Matteucci, autore di un saggio Interpretazioni del risorgimento: un nuovo revisionismo cattolico (Il Mulino, marzo 1961) pur esso dedicato allo scritto Per una interpretazione del Risorgimento. Forse a dissuaderlo non fu una mancanza di riguardo nei confronti di uno studioso come il De Caprariis che, pur giovane, veniva considerato, non a torto, una delle menti storiografiche più acute dalla scuderia crociana. Probabilmente avvertiva una così profonda distanza spirituale e culturale da non consentire nessun incontro proficuo.

In realtà, nel suo stile innegabilmente complesso e involuto, Del Noce fissava le linee di una svolta epocale, sotto il profilo della cultura politica nazionale ovvero dava l’avvio alla liquidazione dell’interpretazione puramente reazionaria del fascismo, diffusa a sinistra come, lo si è visto, nell’area liberale.

«Il vero avversario contro cui il fascismo mosseР’В  -scriveva – data lРІР‚в„ўidentificazione mussoliniana tra la guerra mondiale e la rivoluzione, non fu affatto il comunismo, fenomeno che esso non previde e ignorГІ nella sua radice o confuse col semplice massimalismo, ma furono le forze neutraliste nel loro insieme; […] il fascismo ГЁ un fenomeno interno all’interventismoР’В».Р’В E precisava: Р’В«Vi ГЁ in Mussolini una continuitГ  piena tra il suo originario socialismo rivoluzionario e il successivo fascismoР’В».

Lo stesso intervento nella guerra hitleriana, era la brillante intuizione di Del Noce, «deve esser considerato come rivoluzionario, perché scegliendo l’alternativa della neutralità avrebbe dovuto subordinare il fascismo alle Forze tradizionali, la Monarchia e la Chiesa».

Era difficile considerare “sciocchezze” tesi storiografiche così dirompenti, che andavano criticate sul loro terreno non da un punto di vista esterno e, diciamo pure, sprezzante. Nell’articolo incriminato Del Noce compendiava tesi che, in tutto l’arco della sua vita di studioso, avrebbe posto alla base della sua interpretazione del fascismo, in uno sforzo chiarificatore che non sempre gli riusciva facile

«Ora il fascismo rappresentГІ certamente lo sforzo per nazionalizzare al massimo la rivoluzione; la sua arma polemica era lРІР‚в„ўaffermazione del carattere antinazionale degli altri raggruppamenti politici; pure, esso concluse nel massimo dellРІР‚в„ўantinazionalitГ  subordinandosi allРІР‚в„ўunica forza imperialistica che si sia mai affacciata nella storia senza fingere e neppure poter fingere di rappresentare un’idea universaleР’В». E concludeva, il fascismo Р’В«riuscГ¬ inizialmente come compromesso tra un movimento rivoluzionario che era impotente a rovesciare l’ordine legale e un ordine legale che a sua volta era impotente a ricondurlo nella legge; perГІ, tentГІ di sostanziare questo compromesso, presentandosi come rivoluzione che diventa nazionale attraverso la conciliazione con le forze della tradizione, la Monarchia e la ChiesaР’В».

Siamo in presenza di pianeti diversi e impossibilitati a incontrarsi ma è difficile sottrarsi alla sensazione che uno dei pianeti, quello liberale, non facesse alcuno sforzo per comprendere l’altro, riguardato come tentativo di dare una copertura ideale al fascismo. Ad essere equanimi, era troppo presto per farlo, specie nell’ambiente culturale dominato da una figura assurta – e pleno jure – a simbolo della lotta contro la tirannide fascista: Benedetto Croce.

Ci si chiede, però, se il filosofo, termine fisso d’eterno consiglio per de Caprariis e i giovani dell’Istituto Italiano di Studi Storici fosse poi così chiuso a un approccio storiografico al fascismo di tipo revisionistico.

Come ha ricordato anche recentemente Giuseppe Bedeschi, recensendo sul Giornale il saggio di Mimmo Franzinelli, Croce e il fascismo, Croce nel Diario 1943-1944, aveva scritto di Mussolini «l’uomo, nella sua realtà, era di corta intelligenza, correlativa alla sua radicale deficienza di sensibilità morale, ignorante, di quella ignoranza sostanziale che è nel non intendere e non conoscere gli elementari rapporti della vita umana e civile, incapace di autocritica al pari che di scrupoli di coscienza, vanitosissimo, privo di ogni gusto in ogni sua parola e gesto, sempre tra il pacchiano e l’arrogante». E tuttavia nella Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (1928) si leggeva un’apologia di Mussolini per lo meno strana da parte del Senatore del Regno divenuto suo oppositore da anni: «Era sorto un uomo di schietto temperamento rivoluzionario, quali non erano i socialisti italiani, e di acume conforme, il Mussolini, che riprese l’intransigenza del rigido marxismo, ma non si provò nella vana impresa di riportare semplicemente il socialismo alla sua forma primitiva, sì invece, aperto come giovane che era alle correnti contemporanee, procurò d’infondergli una nuova anima, adoperando la teoria della violenza del Sorel, l’intuizionismo del Bergson, il prammatismo, il misticismo dell’azione, tutto il volontarismo che da più anni era nell’aere intellettuale e che pareva a molti idealismo, onde anch’egli fu detto e si disse volentieri idealista».

Nel secondo dopoguerra, nella lezione tenuta agli Allievi dell’Istituto di Studi Storici, L’obiezione contro le ‘storie dei propri tempi’ (in Storiografia e idealità morale, Ed. Laterza 1950), Croce scriveva in   bellissime pagine che andrebbero sempre rilette e meditate: «Ma di grazia, dove mai io ho scritto o pensato di scrivere la storia dei decenni seguiti al 1915, dei quali la parte centrale fu presa dalla preparazione, dall’avvento, dal dilatarsi ad assoluto dominio del fascismo, e poi dal suo oscillare e traballare e andare in pezzi in una guerra stolta, malvagia e senza speranza, contraria a tutte le nostre tradizioni e a tutti i nostri interessi, materiali, spirituali e morali, e che ha fatto perdere all’Italia gran parte di quanto le aveva acquistato la piccola Italia del quarantennio, che la nuova gente spregiava, decideva e ignorava? Non scrissi quella storia perché il compito che mi toccò allora fu non di fare la storia del regime fascistico ma di aborrirlo e, con quel tanto d’intelletto e di animo che possedevo, contrastarlo dal canto mio e indebolirlo, con la speranza che si dissolvesse prima che gli riuscisse di trascinare l’Italia nell’abisso, che era, purtroppo, l’avvenire che l’esperienza storica mostrava solitamente riserbato a quella sorta di regimi, se, come si suol dire, una fortuna o un miracolo, o la “stella d’Italia”, non intervenisse salvatrice. E, caduto che esso fu, dovrei anch’io dar mano ad apportare rimedi ai mali che si lasciava dietro di sé, e nelle ore che risparmiai per i miei studi non mi sorrise certamente il pensiero di mettermi a contemplare e indagar uomini e fatti a me odiosi e ripugnanti e fastidiosi, verso i quali non solo non provavo la vile gioia della vendetta, ma non mi era lecita gioia alcuna perché essi si legavano al danno e all’onta, a me amarissima, della mia patria illusa, tradita, offesa, vituperata.

Pure, se a un simile lavoro mi fossi risoluto o se potessi mai risolvermi, si stia tranquilli che non dipingerei mai un quadro tutto in nero, tutto vergogne ed orrori, e poiché la storia è storia di quel che l’uomo ha prodotto di positivo, e non un catalogo di negatività e d’inconcludente pessimismo, toccherei del male solo per accenni necessari al nesso del racconto, e darei risalto al bene che, molto o poco, allora venne al mondo, o alle buone intenzioni e ai tentativi, e altresì renderei aperta giustizia a coloro che si dettero al nuovo regime, mossi non da bassi affetti, ma da sentimenti nobili e generosi, sebbene non sorretti dalla necessaria critica, come accade negli spiriti immaturi e giovanili».

Croce ribadiva puntualmente la sua ripugnanza per il fascismo ma nell’ultima frase sintetizzava quasi il programma della futura storiografia revisionista. Il Gioacchino Volpe dello scritto Un secolo di storia italiana sotto il torchio, avrebbe forse concordato col suo grande avversario ideologico. Ѐ difficile poterlo dire di Vittorio de Caprariis e della maggioranza dei prestigiosi collaboratori del Mondo per i quali nulla di positivo poteva esserci nelle bande nere del Duce e nel regime che avevano costruito a suon di manganellate.

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