Quel selfie disumano che sfregia la tragedia

quel selfie disumano che sfregia la tragedia

Quel selfie disumano che sfregia la tragedia

A Piacenza, la mattina dell’11 aprile, presumibilmente a causa di un malore, Daniela Guerra ha investito una bicicletta e poi la sua auto ha proseguito la corsa per andarsi a schiantare contro le vetrine di un negozio del centro.

L’automobilista è morta appena giunta all’ospedale e la ciclista è in condizioni gravi. Conosciamo soltanto la loro età, 73 anni la prima e 34 la seconda.

Se ci fermassimo qualche istante a pensare, non sarebbe difficile fare fantasie di nipotini che attendono le coccole di una nonna che non c’è più, di un compagno che aspettava il giorno del matrimonio da celebrare e ha perso l’amore.

Due esseri umani cui capita un incidente tragico e che invece di suscitare tristezza o compassione ha ispirato un giovane passante allo scatto di un selfie con il braccio proteso verso l’alto al fine di ritrarsi con la vittima alle spalle, cui prestavano i primi soccorsi.

Non è la prima volta che capita. Il selfie lugubre è popolare. Autoscatti sulle rotaie dei campi di concentramento, davanti al relitto di una nave da crociera o delle auto devastate dalle fiamme come se alle immagini non corrispondessero dei simboli, come se Auschwitz non testimoniasse lo stato di abiezione dei deportati e la ferocia dei carnefici.

Di fronte alla deumanizzazione che trasforma le persone in oggetti e immagini virtuali, c’è da chiedersi cosa provasse quel ragazzo intento nello scatto a due passi da una morte che sembra non considerare come una tragedia. A chi ha inviato il suo selfie, e perché. Non sapeva fare nell’immediato l’associazione mentale tra la morte e la scomparsa di una nonna o una fidanzata cara a qualcuno? In uno stato confusionale in cui reale e virtuale non hanno più confine ha perso la sua intelligenza emotiva e la capacità di provare quei sentimenti suscitati dall’empatia.

Dove sono finiti empatia e rispetto? Di fronte al dolore spesso si gira lo sguardo per difesa, per non identificarsi e provare la stessa sofferenza o immaginare che possa capitare anche a noi o

alle persone che amiamo tentiamo di negare l’accaduto per non provare emozioni laceranti.

Il soggetto che fa selfie non pensa e non prova emozioni. Prevale la compulsione allo scatto e alla successiva esibizione del macabro trofeo sui social, anche se non ci sono benefici concreti ma impoverimento dell’anima. L’autostima dipende in modo passivo dalla telecamera del cellulare che permette di comunicare all’altro per immagini forti la prova della propria esistenza. Non si prova vergogna perché non si prova di senso di colpa per quello che si fa né vergogna per ciò che è.

Alla scomparsa dei valori etici si aggiunge un impulso di appropriazione verso quello che rende competitivi in una società in cui quello che si è non conta più, ma conta solo ciò che appare. Con collezioni effimera di like al seguito.

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