Elezioni europee, Meloni e l’obiettivo 30%: un segnale a rivali e alleati. I dubbi del partito

elezioni europee, meloni e l’obiettivo 30%: un segnale a rivali e alleati. i dubbi del partito

Elezioni europee, Meloni e l’obiettivo 30%: un segnale a rivali e alleati. I dubbi del partito

Le parole chiave sono «amichettismo» e «cheerleader», manifestazione evidente della voglia di Giorgia Meloni di tornare parlare la lingua della campagna elettorale. O meglio, guardandola un po’ meno in prospettiva rispetto alle sfide di questo 2024, anche solo di tornare a parlare, rimarcando la possibilità di farlo come e quando meglio crede. Secondo chi le è molto vicino infatti, la premier è risultata «molto infastidita» dalle incursioni di alcune troupe televisive che hanno provato a coglierla in fallo dopo le manifestazioni di Acca Larentia. Così come avrebbe in qualche modo “subito” il silenzio fatto calare da Recep Tayyip Erdogan durante la visita a Istanbul che si è tenuta lo scorso fine settimana. In altri termini l’intervista concessa ieri sera da Meloni a Nicola Porro, sarebbe frutto della volontà della presidente del Consiglio di gestire come meglio crede le proprie uscite pubbliche. Specie perché, appunto, è convinta che dà il meglio di sé quando riesce ad essere il più diretta possibile e quando c’è da misurare il consenso.

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L’OBIETTIVO

Convinzione che sta anche dietro ai tentennamenti meloniani rispetto all’ufficializzare o meno candidatura alle Europee. Quei due o tre punti percentuali che a via della Scrofa garantiscono Meloni porterebbe al partito qualora decidesse di correre in prima persona, a loro modo spaventano.

Centrare l’obiettivo mai nascosto del 30% (alle Politiche del 2022 FdI si fermò attorno al 26%) nasconde infatti alcune grosse insidie. Specie perché, si ragiona ai vertici del governo tra i colonnelli della premier, a meno di miracoli vannacciani per il Carroccio, significherebbe ottenere un risultato pari «quasi al doppio dei tuoi alleati messi insieme». Vale a dire contraddire quel motto tanto in voga tra chi gestisce i territori per FdI («Vincere ma non stravincere»), che è considerato l’unico approccio utile a tenere in piedi l’impalcatura della maggioranza.

Per di più, una volta presa la Sardegna con Paolo Truzzu e assegnata ad un civico la Basilicata oggi governata da Vito Bardi, la dimostrazione di forza di Meloni risulterebbe talmente muscolare che finirebbe quasi con l’imporre un ulteriore passo in avanti. Le versioni che circolano, in questo senso, sono due. La prima è un’ineluttabile rivendicazione di poter lavorare senza continui ping pong (a Palazzo Chigi i continui rilanci azzurri sul Superbonus e le continue recriminazioni leghiste non sono proprio andati giù). Una sorta di ultimatum agli alleati, prodromico alla seconda fattispecie che, qualcuno in FdI, inquadra finanche come ineluttabile: il rimpasto. Apertamente non se ne parla, ma in caso di forte aumento del consenso elettorale e di un ridimensionamento degli alleati, a via della Scrofa immaginano di poter seguire il modello delle elezioni regionali e chiedere a Lega e Forza Italia un nuovo passo di lato, stavolta in due ministeri (i principali indiziati sono l’Istruzione e la Pubblica amministrazione). L’incognita in questo caso però, è rappresentata dalla reazione dei due partiti di centrodestra. «C’è il rischio che non siano lucidi e si finisca con il rovinare tutto» spiegano tra gli strateghi di Fratelli d’Italia.

Un concetto che peraltro rassomiglia da vicino alla riflessione che va maturando nei confronti della sfida televisiva con Elly Schlein. Il dubbio della premier è che la debolezza della leader del Partito democratico – parsa ancora più evidente del passato ai fedelissimi meloniani durante la convention di Gubbio della scorsa settimana – sia in realtà un’arma a favore di Meloni. Tradotto: forse sarebbe meglio non andare troppo ad insistere sul nervo scoperto.

L’ago della bilancia insomma, sta nel non stressare troppo il concetto dei rapporti di forza, evitando soprattutto che si arrivi ad un’escalation prima ancora che le urne abbiano dato il proprio responso.

LA COMUNICAZIONE

Ed è anche per questo che Meloni preferisce in questa fase giocare a carte coperte, rimandando la propria discesa in campo fino all’ultimo momento. D’altro canto la premier, potrà sempre dire tra due mesi e poco più di aver preparato la guerra solo perché aveva in mente di mantenere la pace. Tra il palcoscenico del G7 (a inizio febbraio sarà in Giappone e più avanti in Canada), il tour imposto dalla firma dei patti di coesione con le Regioni (la prossima tappa dovrebbe essere la Valle d’Aosta) e la battaglia identitaria per la riforma del premierato, a Meloni le occasioni per tastare il polso della situazione non mancheranno affatto. C’è da aspettarsi, quindi, che i toni restino quelli di ieri, quelli del “non prendo lezioni da nessuno”. Alleati e concorrenti che siano.

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