L'Ucraina due anni dopo: la diaspora a Roma, "siamo stanchi e disperati"

L’Ucraina due anni dopo: la diaspora a Roma, “siamo stanchi e disperati”

AGI – Oltre 2.800 chilometri e almeno tre giorni di viaggio, dalla Basilica Santa Sofia di Roma fino a Charkiv, in Ucraina. Attraverseranno almeno tre Stati gli aiuti che, domani mattina, saranno caricati su un tir dai volontari chiamati a raccolta qui, nella chiesa di riferimento per la comunità religiosa Ucraina, da padre Marco Semehen, il rettore della Basilica. “Quello che parte domattina è il 118esimo tir di aiuti dallo scoppio della guerra che parte da Santa Sofia” spiega padre Marco all’AGI, rivolgendo un invito a tutti coloro che “vogliono venire a dare una mano. Non abbiamo macchinari, carichiamo manualmente e ci vogliono tempo e forze. Inizieremo alle 9 e finiremo non prima delle undici e mezza, tutti i volontari sono ben voluti”. Ma domani, per la comunità Ucraina, non sarà solamente la data di partenza di nuovo carico. A due anni dallo scoppio della guerra, il 24 febbraio è una ferita che si rinnova.

  Tra gli ucraini fuori da Santa Sofia c’è poca voglia di parlare. Il cielo è cupo “come i nostri cuori” dice Elena, 20 anni, in Italia da Zaporija con la madre, mentre padre e fratello sono rimasti in Ucraina. “Dopo due anni arriva la disperazione – spiega ancora padre Marco – la gente combatte, vuole crederci, però si sta anche stancando”. E per alcune madri la ferita è doppia. Non solo la separazione dal proprio figlio, ma anche il dolore di saperlo nell’ultimo luogo in cui una mamma vorrebbe vederlo in questo momento. In una prigione russa. Come accade invece a Liliya Orel, madre di un militare ucraino che si trova in un carcere russo da 20 mesi. Suo figlio Orla Vladimir è un marine del 501esimo battaglione dell’unità di fanteria marina delle Forze armate dell’Ucraina, si trovava a Mariupol ed è stato catturato ad aprile 2022. “E’ in prigionia da due anni e la Russia si rifiuta di restituirlo all’Ucraina” spiega all’AGI, chiedendo di rivolgere un appello alle istituzioni. “Attraverso voi, voglio trasmettere un appello al governo italiano e ad altri paesi affinchè mi aiutino a far uscire mio figlio dalla prigionia per poi trasportarlo nel paese in cui ora viviamo, in un paese che ci ha accettato ed è molto solidale. Grazie Italia”. “Vorrei attirare l’attenzione pubblica – aggiunge ancora – sul fatto che la Federazione Russa applica torture fisiche e pressioni morali sui prigionieri di guerra ucraini nei loro luoghi di detenzione.  Inoltre, i prigionieri di guerra ucraini non hanno contatti con le loro famiglie e la parte russa non conferma dove si trovino. In una situazione del genere è opportuno evacuare mio figlio in Italia, dove vivo con il mio figlio minore”.    

Per Liliya, la guerra è una diaspora di angoscia. “Voglio dire a mio figlio che lo stiamo tutti aspettando. Io come madre, suo fratello minore, sua figlia Polina e sua moglie Diana. Lo stiamo tutti aspettando, lo amiamo e, soprattutto, stiamo lottando per il suo rilascio. Ci siamo rivolti al Papa per chiedere aiuto, siamo ancora in attesa di una risposta”. Liliya viene da Charkiv, a 40 chilometri dal confine con la Russia, una delle città più segnate dai bombardamenti. “Quando la guerra è iniziata, eravamo ancora in Ucraina e speravamo che il conflitto finisse rapidamente, ma la situazione è peggiorata. Vivevamo nella bellissima e grande città di confine di Charkiv. Quando iniziarono i bombardamenti più pesanti, fummo evacuati e arrivammo in Italia. Siamo qui da quasi due anni. Grazie ai volontari abbiamo trovato casa e lavoro e gli italiani mi hanno aiutato ad iscrivere mio figlio più piccolo a scuola”.

 

I due anni dallo scoppio della guerra saranno ricordati a Santa Sofia con tre messe commemorative. Due domani, alle 8.00 e alle 17.00, e una domenica mattina. Insieme alla cerimonia, una performance di alcuni studenti cercherà di mantenere viva l’attenzione su un conflitto che, in molti qui a Santa Sofia, hanno paura venga dimenticato. “Cerchiamo di mantenere viva la fede e la speranza – spiega ancora don Marco -, preghiamo per tutte le guerre, non solo per la nostra. Il mondo, purtroppo, non è tranquillo. Abbiamo l’intelligenza artificiale, la tecnologia, l’innovazione. Ma siamo rimasti molto selvatici”. La fiducia sta diminuendo. Ma c’è chi non si rassegna. A partire dalla combattiva Liliya: “Vivendo in Italia, continuiamo a lottare per la libertà dell’Ucraina e dei suoi cittadini. Credo nel futuro dell’Ucraina, si rialzerà e diventerà ancora più bella di prima”.

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