Come cambia la guerra, dopo l’attacco dell’Iran a Israele
La rappresaglia diretta dell’Iran contro Israele apre una fase nuova di questa guerra. Sale il livello di rischio, aumentano i costi. Per tutti: Iran, Israele, America. In un certo senso è la prima volta dall’inizio del conflitto che gli ayatollah iraniani perdono il vantaggio dell’iniziativa, in quanto sono «obbligati» a restituire un colpo, uscendo così dall’ambiguità strategica che finora avevano preferito. Fino a questo momento la guerra era andata secondo i piani: cioè molto bene dal punto di vista della teocrazia islamica di Teheran. La possibilità di una guerra diretta fra Israele e Iran sembrava ancora abbastanza remota il 7 ottobre 2023. Nonostante fosse chiaro che Hamas aveva potuto scatenare quella strage solo grazie all’appoggio del suo grande protettore, il regime degli ayatollah preferiva continuare le «guerre per procura». Un’occhiata alle mappe del Medio Oriente aiuta a capire perché.
Le ultime notizie sull’attacco dell’Iran a Israele, in diretta
In Occidente descriviamo spesso l’Iran come un regime in difficoltà, messo alle strette dal suo malgoverno, dalla corruzione, dalle sanzioni occidentali, e da movimenti di protesta, soprattutto femminili. Abbiamo avuto tendenza a sopravvalutare la forza delle manifestazioni di piazza, e la loro capacità di rovesciare il regime. Ma lo status internazionale dell’Iran si è rafforzato negli ultimi anni grazie ai legami sempre più stretti con la Cina e la Russia (a cui Teheran fornisce armi), e ancor più negli ultimi sei mesi, cioè dopo l’attacco di Hamas.
Una carta geografica ci aiuta a cogliere lo stato dei rapporti di forze. Siamo abituati a considerare Israele come una superpotenza regionale, dotata di una superiorità soverchiante rispetto ai palestinesi. Se però allarghiamo lo sguardo, le cose cambiano. L’Iran ha ampliato la sua influenza, politica e militare, nei seguenti paesi: Iraq, Siria, Libano, Yemen.
Attraverso Hezbollah, Hamas, Houthi, e altre milizie o anche alleanze governative (sia a Damasco che a Bagdad), la teocrazia sciita ha di fatto completato un accerchiamento di Israele. Si può aggiungere un’altra visuale. L’arco di forze sostenute e manovrate da Teheran, sempre in Iraq, Siria, Libano Yemen, configurano un accerchiamento ai danni dell’Arabia saudita. Israele e Regno saudita sono i due bersagli dell’espansionismo iraniano. La distruzione dello Stato d’Israele figura tra gli obiettivi ufficiali della Repubblica islamica iraniana, fa parte del suo Dna dal 1979, anno primo della rivoluzione khomeinista. Altrettanto impresso nel Dna dell’islamismo persiano sciita, c’è la guerra di religione contro la monarchia saudita per sottrarle il ruolo di custode dei due luoghi sacri, la Mecca e Medina. L’ayatollah Khomeini lo indicò esplicitamente come un suo obiettivo. L’appoggio agli Houthi nello Yemen ha questa funzione, aggiungere un fronte Sud al possibile attacco contro il Kingdom of Saudi Arabia (Ksa). Riad è già una delle vittime collaterali di questa guerra: alla vigilia del 7 ottobre erano giunti a uno stadio avanzato i preparativi per il riconoscimento diplomatico d’Israele da parte dell’Arabia, tappa finale di un disgelo molto più ampio che era già evidente sul terreno economico, turistico e tecnologico. L’attacco di Hamas sei mesi fa era riuscito subito a fermare quel processo di distensione, ricacciando indietro di molti anni lo scenario del Medio Oriente. Nella prima fase di questa guerra la leadership iraniana aveva scelto di rimanere nelle retrovie, fornendo regìa, supporto ideologico e tanti armamenti alle sue milizie nelle varie guerre per procura. Hamas ha sferrato il primo affondo, il più micidiale, con la mattanza di civili del 7 ottobre scorso, dopo che molti dei suoi combattenti erano stati addestrati dagli iraniani. Gli Hezbollah hanno aggiunto le loro offensive dal Libano. Gli Houthi nel Mar Rosso hanno attaccato le navi di una cinquantina di paesi accusati di appoggiare Israele. Ma quando le forze armate israeliane hanno colpito una sede diplomatica iraniana a Damasco, per eliminare alcuni strateghi iraniani degli attacchi delle varie milizie, allora Teheran si è sentita «costretta» a una rappresaglia diretta. Non più guerra per procura affidata a milizie fiancheggiatrici. La posta in gioco sale per tutti, compresa la leadership iraniana. Finora il regime islamista comandato dalla guida suprema Khamenei si era protetto con la tattica della «deniability»: la possibilità di negare in modo plausibile il proprio coinvolgimento. Passando al combattimento diretto quella finzione viene abbandonata.
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